“L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde, regia di Geppy Gleijeses, con Lucia Poli, Giorgio Lupano, Maria, Alberta Navello, Luigi Tabita. Alla Sala Umberto di Roma
Gente di vecchi costumi
Nel primo atto Algernon Moncrieff pronuncia una battuta che rivela le abitudini teatrali inglesi alla fine dell’Ottocento, quando Oscar Wilde scrisse L’importanza di chiamarsi Ernesto: “Cosa faremo dopo cena? Andiamo a teatro?”. Notoriamente, la digestione induce alla sonnolenza e si ha quindi modo di sostenere che esistono due generi teatrali: gli spettacoli che si possono vedere dopo mangiato perché non c’è il rischio di addormentarsi e quelli a cui è meglio assistere a stomaco vuoto. Quando debuttò il 14 febbraio 1895 al St James’s Theatre di Londra, il testo di Wilde apparteneva certamente alla prima categoria (come gran parte del teatro britannico d’altronde). La qualità di una tradizione teatrale spiega più d’ogni altra la ragione per la quale in sala non si sente il peso del roastbeef.
Ad osservare alla Sala Umberto di Roma l’allestimento firmato da Geppy Gleijeses, che ha affrontato il titolo tre volte (prima come attore, poi come regista), viene un rammarico e cioè che l’autore irlandese, essendo nato nel 1856, non abbia vissuto i 159 anni necessari (cosa sono 159 anni di fronte all’eternità? Molto meno d’un battito d’ala di colibrì) per vedere in scena Lucia Poli. Altrimenti si sarebbe affrettato a tornare a casa per allungare il ruolo di Lady Bracknell affidato a questa magnifica attrice ironica e svelta come un aforisma (di Oscar Wilde), precisa e sottile come una verità da tacere. Se ne trovano parecchie in questa commedia con più bugie di quante candele vi sono in chiesa. L’allestimento in questione dei tre atti, che la critica del passato ha ritenuto prossimi alla farsa, presenta alcuni elementi buffoneschi messi lì dal regista, cose da avanspettacolo come le corsette attorno al tavolo dei due protagonisti maschili, John Worthing interpretato da Giorgio Lupano e lo stesso Algernon di Luigi Tabita; oppure la parrucchetta color fucsia da pagliaccio che adorna il capo del maggiordomo Merriman. Questo cimelio da buffi d’antan sta sulla testa del caratterista Riccardo Feola con l’evidenza d’un mazzo di carote su una balaustra di marmo. Non si può credere che il regista non se ne accorga, allora la ragione di tale malagrazia potrebbe essere che la commedia è tutto un gioco di falsità, più esattamente di false identità, e la parrucchetta ne sarebbe un simbolo. Chiaro che questa spiegazione sembra, è il caso di dirlo, tirata per i capelli, e che l’intento è semplicemente di cavare dal pubblico la risata da pochade. Lo sforzo verso il basso contraddice però la comicità sofisticata di Lucia Poli: non sono due opposti che moltiplicano l’effetto comico, danno piuttosto idea che il regista ha oscillato fra commedia sofisticata e farsa temendo che la prima fosse solo parzialmente apprezzata da un pubblico al quale è bene anche offrire in pasto un po’ di sghignazzo. Insomma la sua idea della platea ha sopravanzato il progetto artistico con il risultato di un allestimento non del tutto omogeneo sotto l’aspetto stilistico. La modernità della Poli – moderna perché la bravura è sempre nuova – che fa il suo spettacolo dentro lo spettacolo, esalta per contrasto l’aria conservativa della messinscena, da compagnia anni Cinquanta con in repertorio Oscar Wilde e Aldo De Benedetti.
Nel salotto vittoriano dell’autore, si muovono i personaggi di una commedia costruita come un divertissement che nasconde una critica di costume severa. Infatti il sottotitolo è a trivial comedy for serious people, una commedia futile per gente seria. Ma sono i costumi di un mondo lontano e di una civiltà vittoriana definitivamente consegnata alla storia. Molta drammaturgia di fine Ottocento e novecentesca, che fino a qualche anno fa aveva ancora qualcosa da dire a noi contemporanei, ora non parla più. Il gioco di parole del titolo originale, The importance of being earnest, sull’omofonia fra “earnest” (onesto, serio, sincero) e il nome proprio “Ernest” ormai non funziona, nel senso che quando Gwendolen dice: “Da sempre il mio ideale è stato di amare qualcuno che si chiamasse Ernesto”, è diventato arduo rilevare l’assurdo di una battuta atta a irridere l’assurdità delle convenzioni sociali. Oggi suona solo come una proposizione insensata. Con i suoi personaggi lontani, da libro di storia illustrato, tutta la commedia, invero un gioiello di tecnica drammaturgica che chiunque voglia scrivere commedie dovrebbe smontare e studiare, si fonda su un contorto intrigo sentimental-matrimoniale di donnine e omini, un po’ sdolcinati, un po’ venali, leggeri leggeri come una banconota da cinque sterline portata via dal vento. Il regista accortamente mantiene la commedia nel tempo suo, la fine dell’Ottocento, al tramonto dell’epoca vittoriana (costumi di Chiara Donato, scene di Roberto Crea). Non la rimaneggia ma la consegna al pubblico così come la scrisse l’autore. Non pretende di convincere della sua attualità ma la tratta come un pezzo, una pièce appunto, di storia del teatro. Allora le famose battute, le freddure, i paradossi fulminanti, in gran parte affidati ad Algernon e Lady Bracknell, assumono una natura epigrammatica simpatica e gratuita, una sorta di prontuario per exempla di come costruire un aforisma.
Il rischio per gli attori, fuorché per Lucia Poli, è in questo caso di rischiare lo stucchevole, la recitazione da teatro all’antica italiana con Giorgio Lupano primattore e Luigi Tabita a fare, mutantis mutandis, il generico primario, l’avversario del protagonista; a Giulia Paoletti primattrice il ruolo di Cecily Cardew; Maria Alberta Navello a mezza strada fra una seconda donna e una brillante fa Gwendolen Fairfax mentre la Miss Prism di Gloria Sapio è da caratterista. Sono professionisti, fanno con mestiere ciò che chiede loro il regista. Il quale però non essendo in scena per questa sua terza edizione della commedia, non si diparte dalla propria natura di capocomico e la sera della “prima” alla fine della rappresentazione sale sul palcoscenico e s’abbandona a un piccolo show con la presentazione degli attori, uno per uno, e con alcune spiegazioni sulla commedia. È la parte del regista che Wilde non aveva previsto.
