“Io sono il diavolo”, uno spettacolo di Claudio “Greg” Gregori. Allo Spazio Diamante di Roma

Io sono il diavolo

Il colore del diavolo è il blues

Se si vuole imparare a suonare il blues, bisogna mettersi all’incrocio di una strada con una chitarra in mano e aspettare la mezzanotte. Apparirà il diavolo che insegnerà all’uomo in attesa cosa vuol dire avere “the blues devils”, i diavoli blu, essere malinconico, depresso, giù di morale, anche ubriaco con la scuffia triste come i bevitori di Toulouse-Lautrec. Claudio “Greg” Gregori appare sul palcoscenico in smoking, ma gli americani lo chiamano tuxedo, con una bottiglia di whisky in mano – a un certo momento calzerà pure uno Stetson da cowboy e impugnerà una Colt. Dice le due parole che i crooner dicono sempre prima di mettersi a cantare e parte con Just in time, evergreen di Dean Martin, Tony Bennett, Frank Sinatra. Altre due brevi considerazioni offerte al pubblico e un paio di pensieri in voce registrata sulla ragazza, una certa Gwendy, sicuramente una biondona alla Daisy Mae Scraggs, la bambola di Li’l Abner. E canta Beyond the sea di Bobby Darin. Poi confessa che la bionda non si chiama Gwendy ma Maria Concetta; lui è Gino Scozzafava e non, come scritto sullo schermo, Gin Cooper, nome che suona molto meglio per esibirsi al The Sand di Las Vegas  o al Buddy Guy’s di Chicago. Ma qui si sta allo Spazio Diamante di Roma (che oggi è meglio, Pigneto Village).
Questo signore, Greg, è un cantante e anche un musicista che (assieme ad Attilio Di Giovanni) ha composto le musiche dello spettacolo, un disegnatore che ha preparato decine di tavole da passare sullo schermo e uno scrittore che ha inventato per il proprio mestiere di attore uno show labirintico, fatto di stanze della memoria, di lunghi corridoi del pensiero, di piccoli boudoir delle passioni, di saloni del ragionamento per uno dei pochi progetti veramente interessanti nella vita di un uomo, l’edificazione interiore di un palazzo del dubbio. Non è una serata sugli Stati Uniti, sulla diva America, ma su Dio e sulla Dea. La Dea è la donna, Dio è l’essere supremo che tiranneggia il mondo dell’Antico Testamento, misogino, fallocratico e violento. L’America è la terra del desiderio, il luogo mitico della libertà dove si trovano il blues e i blues devils, contrapposti alle litanie liturgiche e alle suore del collegio dove l’artista ha passato un lustro d’infanzia.  I palazzi del dubbio, e la scena di Greg, sono pieni di giochi illusori, specchi infiniti, lanterne cieche, riflessi incondizionati. Sono abitati da raggiri che inseguono delle domande.
Lo spettacolo si intitola Io sono il diavolo e tecnicamente si tratta di un one-man show ma in effetti è un “varietà della mente” costruito con una successione di monologhi, sketches, numeri, canzoni, che da un alveo autobiografico tracima in una esegesi veterotestamentaria comica. Un’ora e quaranta minuti difficilissimi da montare e rappresentare per i quali ci vuole un secondo bravissimo giocoliere teatrale fuori scena, Nicolò Vernazzani alle luci e alla fonica che non deve sbagliare nemmeno uno degli innumerevoli cambi di illuminazione, video e tracce audio, altrimenti saltano interi giochi e passaggi.
Sopra un leggio una grande Bibbia, un librone da curia secentesca; sullo schermo l’immagine di Geppo, il diavoletto buono di un fumetto anni Sessanta, poi si vedono le vecchie pubblicazioni erotiche che i baby-boomer come Greg compravano con gran vergogna dall’edicolante nascondendole dentro i quotidiani, Lando, Caballero, Isabella, Supersex. Oggi sembrano un po’ meno osé di un torpedone pieno di dame dell’esercito della salvezza. “Giudici 19, 22”, annuncia l’attore e prende a leggere e commentare la storia del levita e della sua concubina. I due sono ospiti di un vecchio signore che vive a Gabaa. Ed ecco che gli uomini della città, gente iniqua e infame secondo la Bibbia, si presentano davanti alla casa con l’intento di abusare del levita. Ma il vecchio fa notare che non si trattano così gli ospiti e offre allo stupro collettivo la figlia vergine. A questo punto si oppone il levita che manda fuori la sua concubina, la quale viene violentata tutta la notte. Il giorno dopo i due ripartono e una volta arrivati a casa, l’uomo smembra la poveretta in dodici pezzi da mandare a ognuna delle tribù di Israele.
La donna, sempre di donna il corpo e l’anima da squartare. Nell’Antico Testamento piace assai il sangue di femmina e Greg riprende varie altre ignominie bibliche del genere, femminicidi li chiamiamo oggi, per poi cantare davanti al diavolo Sweet home Chicago dei Blues Brothers: “Ha-ha! Baby don’t you wanna go! Ha-ha! Honey don’t you wanna go! Back to the land of California, in my sweet home Chicago!”.
Nel suo saggio Drunk with Blood – God’s Killings in the Bible (Ubriaco di sangue – Le uccisioni di Dio nella Bibbia), lo scrittore americano Steve Wells calcola in circa venticinque milioni i morti ammazzati – donne, bambini, uomini – dal Signore di prima di Cristo fra esecuzioni e stragi. Il dio di Greg col sigaro in bocca, l’accento siculo e la mascella prominente è il don Vito Corleone di Marlon Brando.
Sotto l’apparenza sempre ironica e a tratti grottesca, questo spettacolo d’arte varia, giochi, soprese, battute, musiche, immagini, voci registrate e storie bibliche truculente, pone la questione del nostro rapporto con due divinità: il dio feroce e tirannico dell’Antica Alleanza, che pretende il servilismo di una fede cieca; e il dio dentro di te, spettatore, seduto in platea a guardare uno show che sembra seminare blasfemia e invece raccoglie il dubbio, la chiave dei laici per aprire alla ragione la porta del mistero. “Sono stato cinque anni dalle suore – dice Greg – e sono ateo.”. La frequentazione di monache e preti salva il giovane dall’Azione cattolica ma non dallo stress: punizioni, schiaffi, tirate di capelli, prigionie nei ripostigli. “Poi ragionandoci sopra, ho capito di non essere ateo ma agnostico”. Pennies from Heaven, Monetine dal Cielo intona lo showman da qualche parte dello spettacolo, la cantava Bing Crosby: “A long time ago, a million years BC”. Ogni tipo di fideismo, di fanatismo, di invasamento, conduce all’ignominia. La conversazione di Greg con il diavolo è del musicista della vita che impara il blues e la malinconia poetica che aprono l’uomo alla riflessione su se stesso. L’inferno non sono gli altri, come scriveva Jean-Paul Sartre in A porte chiuse, l’inferno siamo noi. Ognuno di noi. Lo spettacolo è un vestito, un tuxedo di America e di irreligiosità indossato da un’anima esistenzialista che insegue i suoi diavoli blu, il dubbio, la libertà, l’assurdità della vita, la condizione umana.

Marcantonio Lucidi,
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