“Microclima”, scritto e diretto da Alessia Cristofanilli, con Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli. Al teatro Vascello di Roma

Microclima di Alessia Cristofanilli 6 ph Ilenia Landi

Se la sinistra vuole farsi sentire, deve andare in scena

“Il privato è politico” è stato uno slogan della contestazione anni Settanta. Mezzo secolo dopo, il concetto è rovesciato: il politico è privato. Nel senso che il discorso sulla città, sulla vita collettiva, sulla nostra società e sul suo governo, si è rintanato, quando va bene, dentro la famiglia. Questo è uno dei temi di uno spettacolo che una volta si sarebbe definito impegnato, Microclima, scritto e diretto al Vascello di Roma da Alessia Cristofanilli. Quanto di questi tempi avviene fuori casa, pubblicamente, è alla politica ciò che le urla isteriche di Hitler o le trombonate di Mussolini, le spacconate fragorose di Trump o gli strilli nevrastenici di Meloni sono alla musica.
La storia è ambientata in una casa-vivaio nella quale vivono in centoquarantatré: il padre Rud, la madre Edda, tre figli (di cui però in scena se ne vede uno solo) e centotrentotto piante che rappresentano ovviamente una metafora. Le piante sono come gli ideali, possono essere tagliate anche al novanta per cento, viene detto nello spettacolo, ma poi ricrescono. Il padre lavorava in una libreria ma si è licenziato perché gli chiedevano di mettere il cellophane attorno ai libri che trattano di immigrazione o di omosessualità e di piazzarli nell’ultimo scaffale in alto. Edda e Rud sono due individui che si sono spesi per la democrazia, la libertà, la solidarietà, l’uguaglianza ma di fronte all’avanzata delle destre al potere, all’indebolimento della cultura progressista, alla svalutazione dei valori laici, alla sottrazione dei diritti civili, si sono ritirati nell’unico luogo dove ancora è rimasta un po’ di politica, il privato appunto, la casa. Tagliati fuori dalle relazioni sociali, hanno problemi economici seri al punto da avere fame e passano le giornate dentro il loro microclima, come lo chiamano, assieme ai vegetali, che non disturbano, restano silenti. La crisi arriva quando il figlio sedicenne, che non a caso si chiama Demo, porta loro da mangiare e li sfama ma rivela di essere affiliato a un movimento giovanile neofascista. Lo scontro fra il padre e il figlio è generazionale, ideologico e definitivo. Quindi: due persone trascinate nel vuoto da quella che è stata chiamata dai poveri di spirito “fine delle ideologie”, si sono rifugiate nella loro idealità solitaria (la solitudine è come la morte, non la si può togliere a nessuno), epperò si ritrovano dentro casa un adepto della peggiore ideologia novecentesca, il nazifascismo nella sua riedizione contemporanea.
Lo spettacolo è sostenuto dalla Fondazione Ebert – storica organizzazione politica tedesca di orientamento socialdemocratico nata cento anni fa esatti e presente in Italia dal 1973 – impegnata nella promozione della giustizia sociale, dei diritti, della democrazia e della pace. Evidentemente a sinistra qualcuno si muove, finalmente, e capisce persino che il teatro è un centro di resistenza e può essere un buon strumento di lotta antireazionaria contro la ferocia dei criminali al potere, i Putin, i Netanyahu, Xi Jinping, il pregiudicato Trump che fa un uso così spudorato della menzogna da non essere più nemmeno politico, da risultare addirittura uno sberleffo, una goliardata. La goliardia maialesca tipica della mentalità di destra abituata allo sghignazzo bavoso su tette e culi e all’inganno, al punto da far passare per elemento di sinistra un assassino figlio di genitori trumpiani, compagno di un transessuale, che ha ammazzato un trumpiano razzista, fascista, seminatore di odio, cultore della violenza e delle armi ma soprattutto transfobico.
Il dato politico che viene fuori dalla drammaturgia di Alessia Cristofanilli è però la sconfitta. Il padre e la madre sono due vinti al tramonto e il figlio è l’alba di un orrore. D’altronde il progetto delle destre reazionarie e neofasciste di accreditarsi come forze democratiche è riuscito anche perché nell’ultimo quarto di secolo i politici cosiddetti progressisti hanno pensato al progresso personale. C’è chi, una volta lasciato il potere, ha palesato senza vergogna la propria natura. Per citare qualche esempio fra troppi, in Italia uno si è occupato di compravendita di armi e quindi di morte, un altro in Germania s’è fatto servo del tiranno russo, un terzo in Gran Bretagna ha tirato fuori il progetto di trasformare Gaza in un mega polo turistico per ricchi.
Non si sente in questo spettacolo una chiamata alla riscossa, un suono di rivalsa, piuttosto il lamento della disfatta, il clic del buio. A parte l’idea delle piante, manca lo strumento principe dell’arte scenica e drammaturgica, la metafora, si pensi ai tre atti del ‘59 di Ionesco Rhinocéros apologo surreale sul totalitarismo, il razzismo, il conformismo. Ma è vero che anche un’opera teatrale concepita come un’esplicita operazione politico-ideologica ribadisce lo statuto fondativo del teatro come opposizione al potere e alla tirannide e rinnova il patto con il pubblico. Infatti la platea del Vascello ha molto applaudito, segno che le sveglie suonano udibili alle orecchie delle coscienze individuali e collettive.
Supportata dalla scenografia di Eleonora Ticca, la regia dell’autrice è semplice e privilegia il messaggio; gli interpreti sono Sylvia Milton che fa la madre, attrice puntuale, scriverebbero i critici di mezzo secolo fa quando la sinistra esisteva. Apparentemente sicuro di sé ma senza i risultati interpretativi della sicurezza Federico Gatti che fa il padre. Alcuni spettatori delle file più lontane hanno detto alla fine dello spettacolo che spesso gli attori non si sentivano. Questo è dovuto al fatto che vige questa disgraziata abitudine di parecchi artisti della scena di parlare facendosi cascare le parole sui piedi, come se fossero a casa propria e non a teatro dove invece la voce va portata e tecnicamente sostenuta con il diaframma, in barba a certe teorie falsamente moderne sulla recitazione. D’altronde, se la sinistra vuole farsi sentire deve alzare la voce. Il giovane Francesco Morelli fa il sedicenne con risultati interessanti, direbbero i critici di cui sopra.

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.