“Riccardo III” da William Shakespeare, adattamento di Ármin Szabó-Székely, regia di Kriszta Székely, nel ruolo del titolo Paolo Pierobon. Al Quirino di Roma

Riccardo III

La tragica commedia dei peggiori di noi

Un grande testo, il Riccardo III di Shakespeare. Una regia magnifica dell’ungherese Kriszta Székely. Un superbo prim’attore, Paolo Pierobon in scena al Quirino di Roma, impegnato nella parte più estesa mai scritta dal Bardo, ad eccezione di Amleto. E una compagnia perfetta. Tutti bravi, tutti giusti nei toni, nei movimenti, studiata la gestualità, chiare le intenzionalità dei personaggi, corretto persino l’eloquio di ciascuno (intendendo proprio la pronuncia dell’italiano). Non si notano sbavature né tempi morti, il ritmo della rappresentazione è sempre in armonia con l’azione, non si casca neanche nell’errore di andare più veloci del necessario per attestare il brio e la modernità dell’allestimento. Addirittura ci sono due brevissimi vuoti di scena, non si sa se volontari o accidenti d’una sera, che funzionano da attimi di sospensione perfetti per dare un grado ulteriore di tensione. Tempo effettivo dello spettacolo, tre ore; tempo percepito un’ora e mezza.
Si sa, Riccardo III è un angelo del Male che nell’epilogo viene ucciso dall’angelo del Bene, Richmond, il futuro Enrico VII d’Inghilterra. Ora Richmond, che appare nel quinto e ultimo atto, in questo adattamento della tragedia shakespeariana curato da Ármin Szabó-Székely non c’è. I personaggi di questa edizione sono diciassette ma nel testo originale sono più di quaranta oltre a gentiluomini, cittadini e fantasmi. Mancano scene di grande forza drammatica e teatrale, ad esempio il duello fra Riccardo e Richmond, però questa messinscena non è un bignami teatrale e se anche le forti riduzioni che l’allestimento manifesta fossero dettate da esigenze produttive, la prosaica necessità viene dalla regia trasformata in una visione originale e intensa della tragedia shakespeariana. Si tratta di uno dei casi rari in cui la manipolazione di un capolavoro, che in quanto tale avrebbe da essere lasciato com’è, viene giustificata dalla forza di una direzione che sa con precisione cosa sta facendo, perché lo sta facendo e dove vuole andare poeticamente, esteticamente e criticamente.
Kriszta Székely in fondo è una judoka, accompagna e sfrutta il movimento e la potenza di Shakespeare, rende Riccardo ancor più protagonista di quanto già non lo sia nel dramma integrale, esalta ben oltre la misura del grottesco l’irresistibile sense of humour che il Bardo cela nel suo truculentissimo villain, lo ridefinisce come il vero indubitabile autore e regista della propria tragedia, non vittima del fato o del volere divino ma unico responsabile di un destino forgiato dalla propria personalità e dalla brama di potere. Il caso non esiste, la colpa è tua, uomo: lo spettacolo esprime con chiarezza e durezza, anche attraverso battute apocrife, un giudizio sprezzante, sarcastico ma sempre ironico sugli attuali uomini di potere, su tutti gli abietti Riccardi terzi di oggi, i governanti e i politici che ordinano omicidi e stragi, guerre e devastazioni; i finanzieri, gli imprenditori e i manager che a conoscenza d’un ponte guasto tacciono, nulla fanno e ricoprono i cadaveri provocati dal crollo con la bestiale salivazione della loro avidità.
Ma il Riccardo teatrale è molto superiore ai sanguinari riccardini dell’ora, sempre codardi di fronte alla verità, perché questo autentico e sincero re del Male si rivela affascinante nel suo disprezzo della menzogna, nella sua intelligenza diabolica capace di assicurarsi la complicità e a tratti persino la simpatia del pubblico in sala tenendolo costantemente informato di quanto va tramando. Eroe e antieroe dalla dialettica irresistibile quando osa corteggiare e riesce a conquistare lady Anna, a cui ha ammazzato il marito e il padre. È con l’inganno della parola che Riccardo si mostra nella realtà del suo mondo subdolo e feroce, come è nella finzione del discorso che si genera la verità teatrale, ossia la natura umana, così evidente quando il malvagio malformato gobbo, d’espressione torva e maligno nel ghigno, si rivolge alla platea per condividere la vittoria di un’ignominia amorosa, un trofeo di concupiscenza, una promessa di lascivia strappata alla ragione, al cuore, al cielo. Quanto può essere aspramente godibile per un pessimista radicale questa privazione d’ogni consolazione riguardo gli uomini e la loro condizione. La regia segue e amplifica Shakespeare nell’esaltazione della statura scenica del tiranno in contrasto con la sua pochezza fisica. S’avvale appieno del vantaggio costituito dalla prova d’un attore come Pierobon che ha capito tutto dello spettacolo nel quale sta quasi sempre in scena perché tutti gli altri personaggi esistono in funzione sua. Il dramma si svolge nella sua mente e la riduzione dell’originale serve anche a proiettare la tragedia con fuoco preciso nella testa di Riccardo, di fronte alla quale lo spettatore viene fatto accomodare per osservare il crimine e la catastrofe dal punto di vista di un cervello identico e contrario al corpo che lo sostiene, uguale nella sua deformazione mostruosa, opposto per l’estensione e la spaventosa agilità del suo agire. Gli altri personaggi non sono però interpretati a mo’ di figure sbiadite di un’evanescenza cerebrale ma come incubi densi del sonno della ragione, ciascuno a suo modo, ognuno a vario titolo, per primo il duca di Buckingham, complice dell’infernale storpio. Pusillanimi disperati tutti, sanno e non fanno perché sperano sempre che la sete del mostro si plachi con l’ultima sorsata di sangue versata da altri.
Difficile diventa per un bravo attore posto in condizioni teatrali così chiare e sicure sbagliare il personaggio ma parimenti una regia che con tali interpreti mancasse lo spettacolo, si troverebbe abbandonata dalla propria arte come il sogno d’amore fugge dalla mediocrità. E siccome neanche per un istante della rappresentazione il senso universale del Riccardo III deve lasciare lo spettatore, i costumi di Dóra Pattantyus sono contemporanei, eleganti gli abiti femminili, tagli di donne potenti e di mogli di potenti; scuri i completi maschili come i vestiti dei becchini, dei plutocrati e degli oligarchi orientali e occidentali. Neri i sacchi per cadaveri ammonticchiati in un angolo. Un televisore proietta come fossero notizie e servizi di telegiornale le immagini in diretta della scena riprese da un cameraman in mezzo a una corte che pare una citazione sarcastica del gruppo Bilderberg o una caricatura del forum economico di Davos. Condizionamento mediatico, manipolazione delle masse, disinformazione. E guerra. Finisce male questo Riccardo III che lo scenografo Botond Devich ha messo sotto il tetto di un grande chalet adatto alle riunioni alpestri di spietati banchieri. Dopo lo spettacolo, molto applaudito, alle persone perbene non resta che ridere di quella risata un po’ amara così lontana dallo sghignazzo, di quella risata misericordiosa e cristallina che accompagna la tragica commedia umana dei peggiori di noi.
In scena oltre al bravissimo Paolo Pierobon nel ruolo del titolo, una compagnia eccellente formata da Elisabetta Mazzullo (Elisabetta), Jacopo Venturiero (Buckingham), Francesco Bolo Rossini (Edoardo – Presidente della Corte Suprema), Stefano Guerrieri (Clarence . Arcivescovo), Lisa Lendaro (Anna), Matteo Alì (Hastings), Nicola Pannelli (Stanley), Manuela Kustermann (Cecilia), Marta Pizzigallo (Margherita), Alberto Boubakar Malanchino (Rivers – Secondo Sicario – Tyrrell) e Nicola Lorusso (Catesby – Primo Sicario).

Marcantonio Lucidi,
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