“Guanti bianchi” di Edoardo Erba, liberamente ispirato a “L’arte spiegata ai truzzi” di Paola Guagliumi, regia e interpretazione di Paolo Triestino. Alla Cometa Off di Roma

Guanti bianchi

Come dare perle ai tamarri

Per il De Mauro della lingua italiana, “truzzo” indica un “giovane di bassa estrazione sociale che segue gli aspetti più appariscenti e volgari della moda”. Un coatto, insomma, un tamarro. A soggetti di tale raffinatezza intellettuale, una storica dell’arte, Paola Guagliumi, ha deciso di spiegare la materia sua e più in generale l’ideale di bellezza. Un po’ come illustrare a un cammello la meravigliosa eleganza d’un cavallo al galoppo. Per l’arduo compito, la storica usa il romanesco sia nelle lezioni video che propone su youtube che per il libro di cui è autrice intitolato L’arte spiegata ai truzzi. Un’opera di divulgazione popolare che gli intellettuali probabilmente mancano di apprezzare, pronti a stupirsi della barista napoletana che cita Platone e Talete: “La verità è che il nostro Talete era un figlio di buona donna e non a torto Platone, quando parlava di lui, lo definiva: «ingegnoso inventore di tecniche»”. La signora ha letto con godimento la Storia della filosofia di Luciano De Crescenzo.
Ispirandosi a L’arte spiegata ai truzzi, Edoardo Erba ha scritto un monologo intitolato Guanti bianchi, messo in scena e interpretato da Paolo Triestino alla Cometa Off di Roma. Triestino, attore bravo, con forte vis comica adatta alla commedia leggera ma ferrato anche nel monologo, fa Antonio, nativo di Colleferro, il quale si autodefinisce “movimentatore” e ha passato la vita a fare il trasportatore di opere d’arte. Si è occupato di pezzi importantissimi, straordinari: la Nike, per esempio, che non è una scarpa da ginnastica e non si pronuncia naik, neanche è un naik club per truzzi e bimbeminchia, ma significa vittoria e in questo caso indica la Vittoria di Samotracia, acefala, senza braccia, con le grandi ali aperte che si erge meravigliosa in cima alla Daru, la scalinata principale del Louvre. L’Apoxyómenos, “colui che si deterge”, è invece di Lisippo, che si conosce solo per la copia latina marmorea ritrovata nel 1849 a Trastevere, nel vicolo delle Palme, per questo motivo chiamato da allora vicolo dell’Atleta. Dopo le fatiche sportive l’atleta, spiega Antonio, “se sta a gratta’ via la zella” che a Roma vuol dire sudiciume.
Quest’uomo di modestissima preparazione culturale, tutto immerso nel dialetto, passa la sua vita davanti alla bellezza, la sposta, la trasporta, ha la fortuna impagabile di poterla toccare, il tatto è un senso divino, magnetico, desidera la carezza proibita sulla stoffa di marmo della Pietà michelangiolesca. La bellezza entra nella mente di Antonio anche dal Mosè di San Pietro in Vincoli e irradia conoscenza vergine, non mediata dalla nozione, è una malìa che desta libidine di sapere, per esempio del vitello d’oro. E Antonio racconta l’episodio biblico, poi spiega la prospettiva mostrando La città ideale esposta al Palazzo Ducale di Urbino, e il significato di Amor sacro e Amor profano di Tiziano: “A pischella a sinistra è vestita come na sposa, perché er matrimonio è ‘n contratto… L’arta, quella gnuda, te sta a ddì che er matrimonio è pure ‘n sacramento”. Tutto sempre in romanesco, di modo che al tamarro l’informazione arrivi da sotto, dalla pancia.
Il monologo è una passeggiata nell’arte, non soltanto italiana, all’apparenza un po’ casuale, dettata dal pretesto drammaturgico, ossia le opere che il movimentatore si trova a dover spostare. Si passa senza gran logica dalla Testa di Giovanni Battista del lombardo leonardesco Andrea Solario a una natura morta del fiammingo Jan Van Kessel il Vecchio e a una delle cosiddette lunette Aldobrandini, il Paesaggio con la fuga in Egitto di Annibale Carracci. Opere diversissime fra loro ma tanto al truzzo, incapace di distinguere William Turner da Jackson Pollock, cambia poco, l’importante è che s’innamori dell’arte, questa incomprensibile manifestazione dello spirito umano. Allora, a mo’ di spiegazione altamente comunicativa, Antonio forgia l’aforisma: l’arte figurativa è come Montagne verdi di Marcella Bella e quella astratta invece è musica disco. Certamente il movimentatore è un uomo ottimista perché parte dal presupposto, tutto da dimostrare, che il coatto sappia chi è Marcella Bella. Ora si sta nel Novecento con Joan Mirò: “Te dici, ma mo anvedi questo che fa li pupazzetti, è bravo pure mi nipote che cià quattr’anni a fà sta robba qua, anzi ‘a fà popo ugguale ugguale”. E con Lucio Fontana: “Fontana te vo fà ricordà che ‘a tela è na tela, ‘n oggetto reale, noo spazzio reale (anfatti se chiama Concetto spazziale). E solo bucannola too po’ fà notà, perché allora te ne accorgi. Quasi come spesso accade che te ricordi d’avecce ‘n dito quanno too schiacci naa porta”. Ahò, sveja.
Antonio torna nella natia Colleferro a trascorrere gli anni della pensione. E per il selvaggio omicidio di Willy Monteiro Duarte del 6 settembre 2020 da parte di belve, non di truzzi, mostra Il grido di Edvard Munch. Stavolta non c’è bisogno di spiegazioni.

Marcantonio Lucidi,
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