“Un matrimonio all’italiana” di Roberto D’Alessandro anche interprete assieme a Enzo Casertano, regia di Silvio Giordani. Al Manzoni di Roma

Un matrimonio all'italiana

Fotografia di famiglia con polacca

Su un tavolino del salotto, c’è una vecchia macchina fotografica tascabile, da lontano sembra una Kodak Instamatic, con il vano per il rullino di pellicola. Una regola teatrale dice che ogni oggetto in scena deve essere usato prima o poi durante lo spettacolo o comunque deve avere un significato, una ragione per stare lì. Questa macchina, poco più d’un giocattolo, antica tecnologia della caverna analogica che pareva prodigiosa mezzo secolo fa, indica che l’interno familiare immaginato da Roberto D’Alessandro nella sua commedia Un matrimonio all’italiana, in scena al Manzoni di Roma, è capeggiato da un signore di stupefacente avarizia molieriana, il quale non butterebbe nemmeno una lampadina a incandescenza fulminata.
Diretto da Silvio Giordani, lo spettacolo ha come obbiettivo primario di fare ridere, però non è una farsa e non contiene volgarità. Ha un andamento comico fluido, il pubblico si diverte con continuità, il ritmo è sempre ben teso, ci stanno pure un paio di momenti sentimentali perché l’autore sa che la lacrimuccia porta sale. La lingua parlata è un italiano napoletanizzato e attraversato da calabresità varie, sicuramente invisa ai puristi dell’uno o dell’altro idioma, che assicura all’eloquio ritmo e velocità, quindi efficacia alla battuta, però necessita di attori con senso del tempo teatrale e anche della misura per non finire nel folclore meridionalista ed evitare alla commedia di ridursi a farsa. D’Alessandro, oltre che commediografo, è anche attore di temperamento comico che si scrive la parte del vedovo e avaro Durante sulla propria fisicità imponente e giocosamente ingombrante; caratterista assai dotata, fulminea, molto espressiva è Federica Cifola che fa la sorella bistrattata Mena, una perfetta zia zitella acida e puntuta; il ruolo del figlio Geppino è giusto per Giorgio Sales che incomincia freddo la replica di domenica scorsa (le pomeridiane festive sono insidiose) ma si riprende rapidamente e fa il giovinastro sfaticato e cercaguai con quell’aria “scialla”, come direbbero i ragazzi, che s’addice al personaggio. Maria Cristina Gionta è la maliarda, polacca che Durante ha trovato e sposato tramite un’agenzia matrimoniale. La bambolona, suscitatrice di bollori erotici e di invidie, ha un’evoluzione da compiere nel corso della rappresentazione per passare da femmina tutta corpo a donna con un’anima: personaggio non facilissimo da tenere in una mutazione che accortamente l’interprete incomincia a preparare fin dalla sua prima entrata in scena. Poi nel ruolo di Ciro cognato di Durante, c’è Enzo Casertano, un classico brillante da compagnia all’antica italiana, preposto a sketches e siparietti vari, battute, battutine, facce, smorfie e maniere a controcanto buffo del capofamiglia.
Si sta proprio nella tradizione della commedia comica nostrana in cui il testo è tutto pretesto. A un certo momento si presenta persino un abbozzo di tragedia – il figlio si è messo in brutte mani a cui deve trentamila euro – ma si tratta d’un passaggio di sei o sette minuti al più che serve solo a innescare un piccolo colpo di scena utile a chiudere il primo tempo e avviare il secondo. Costruiti i personaggi, fatta la trama con i suoi temi che sono quelli della quotidianità: la famiglia come piccolo inferno in terra, i matrimoni con le donne dell’est europeo, i soldi, l’avidità. Molti applausi a fine spettacolo e a scena aperta, sulle battute, le tirate, le carrettelle e tutti i trucchi teatrali usati dagli interpreti senza risparmio, anche dall’avaro.

Marcantonio Lucidi,
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