“Manola” di Margaret Mazzantini, con Nancy Brilli e Chiara Noschese dirette da Leo Muscato. Al Parioli di Roma

Manola

Melius deficere quam abundare

Fin dai tempi del diploma al laboratorio di esercitazioni sceniche diretto da Gigi Proietti, Chiara Noschese si rivelò dotata di un gran bel talento teatrale e molto versatile, profonda nei ruoli drammatici ed eccellente nel brillante, con un istinto comico praticamente infallibile. Una delle più brave della sua generazione, adatta anche alla commedia musicale, al punto che Pietro Garinei, il quale di attori e attrici se ne intendeva come pochi, la volle che aveva venticinque anni a fare Peronella nell’edizione del 1994 di Alleluja brava gente. E per la quarta edizione di Aggiungi un posto a tavola, nel 2002, interpretò Consolazione, ruolo che nelle edizioni precedenti fu di artiste di levatura eccellente come Bice Valori e Alida Chelli.
Al Parioli di Roma, Chiara Noschese interpreta un testo che Margaret Mazzantini scrisse e interpretò assieme a Nancy Brilli nel 95, Manola, con la regia di Sergio Castellitto. Oggi la Brilli ha ripreso il ruolo che fu suo all’epoca, mentre a dirigere stavolta c’è Leo Muscato, il quale ha assunto una decisione a occhio molto teatrale: le cronache dell’epoca indicano che lo spettacolo, troppo lungo, era costituito da due atti e durava oltre due ore. Adesso è stato ridotto a un atto di un’ora e venti minuti. Quindi il regista ha tagliato almeno quaranta minuti e bene ha fatto perché una commedia brillante per coppia comica molto, molto difficilmente può valere più di un’ora e venti, massimo un’ora e mezza.
Accanto alla tigre di palcoscenico, la Brilli pare trovarsi a proprio agio e interpreta con mestiere e molta autoironia un ruolo a lei congeniale di bella fatalona gaudente che mangia uomini e va a divertirsi in discoteca a Formentera. La vamp si chiama Anemone ed è la sorella gemella, dizigote quindi non le somiglia, di Ortensia la quale essendo venuta al mondo pochi minuti dopo la primogenita, ha scavallato la mezzanotte ed è nata un venerdì 17. Ortensia è tutto il contrario: afflitta da irsutismo, bruttina, complessata, sempre in analisi, plurifobica, intellettualoide rinsecchita e saccente. Il mito dei gemelli è antico quanto l’essere umano e sfruttato a teatro forse da quando un primo uomo delle caverne si mise a raccontare e mimare una storia davanti al pubblico seduto attorno al fuoco. Però funziona sempre. Le due donne parlano solo di se stesse, o meglio, ossessivamente parlano l’una dell’altra, a una maga di nome Manola. Personaggio che non c’è ma che permette alle due attrici di rivolgersi direttamente al pubblico – un annullamento della quarta parete – e di imbastire tirate comiche di impronta cabarettara. In effetti, la struttura della pièce è di due lunghi monologhi che si incrociano. Le sorelle parlano molto di sesso (con una buona carrettata di turpiloquio), di psicanalisi, di infanzia, amori, desideri, speranze, insomma delle loro vite così diverse, la bellona sempre con le gambe di fuori va a ballare e la bruttina perennemente coperta di vestiti scuri come l’umor nero a fare i picchetti davanti alle fabbriche. Dopo un po’ però il gioco mostra la corda e allora un piccolo colpo di scena raddrizza le gambe alla commedia per mandarla in piedi verso il finale: la bella Anemone si sposa e il matrimonio assai rapidamente la cambia, la imbruttisce, la sgualcisce; al contrario Ortensia fiorisce, si erotizza, impenna le tette e si mette finalmente a vivere e acchiappare maschi.
Mazzantini definisce questa sua prima opera teatrale con l’accecante luce della modestia “un testo sfrenato” e chiarisce che “prevede due interpreti formidabili per una prova circense senza rete”. A mettere la rete ha provveduto una regia saggia che ha pensato prima alle sue attrici e agli spettatori e poi al testo. Quel che è da evitare con Shakespeare, si può fare con Mazzantini.

Marcantonio Lucidi,
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