“Nella solitudine dei campi di cotone” di Bernard-Marie Koltès, regia di Andrea De Rosa, con Federica Rosellini e Lino Musella. All’India di Roma

Nella solitudine dei campi di cotone

Tecniche di commercio delle parole

I personaggi del dramma di Bernard-Marie Koltès (1948 – 1989) Nella solitudine dei campi di cotone, il dealer e il cliente, sono nell’originale due uomini ma lo spettacolo diretto da Andrea De Rosa (al teatro India di Roma) è interpretato da una donna e un uomo, Federica Rosellini e Lino Musella. Non è un arbitrio della regia, in Francia negli ultimi anni sono stati almeno due gli allestimenti siffatti e comunque il personaggio del dealer non ha una forte caratterizzazione di genere. Anche perché il testo di Koltès, datato del 1985, è stato definito in Francia con buona ragione “teatro letterario” ma verrebbe da qualificarlo di “lirismo dialogato”. D’altronde l’autore stesso confermò di non essere interessato al “personaggio psicologico” e tantomeno al “personaggio ragionevole”. Quindi che il dealer sia maschio o femmina non ha molta importanza.
I temi del dramma non riguardano situazioni ma condizioni: la solitudine (come si evince dal titolo), la morte, l’incomunicabilità, l’inconoscibilità dell’altro, lo straniero. I rapporti umani possiedono in Koltès una connotazione etologica, gli uomini si incontrano come fossero cani o gatti e le loro problematiche attengono, in estrema sintesi, a questioni di territorio. Le relazioni sentimentali soggiacciono alle leggi dell’economia e del commercio. Tutto questo però l’autore non lo teatralizza, non ne fa azione, non costruisce una storia con un intreccio e dei personaggi mossi da desideri, ambizioni, intenzioni, vizi e virtù.
Vi è come una specie di corto circuito: negli anni Settanta – Ottanta, Koltès si ribella alla supremazia della scrittura scenica sulla scrittura drammaturgica, cioè difende il primato del testo di fronte all’autoritarismo della regia al punto da lottare contro qualsiasi modifica in sede di messinscena della parola da lui scritta. Poi però il suo testo è letteratura e il linguaggio prevale sull’azione, sicché in assenza di un preciso indirizzo teatrale e drammaturgico, sostituito da un lambiccato lirismo, la regia diventa libera di abbandonarsi ad ogni interpretazione. Una libertà obbligata che porta o al tradimento puro e semplice o alla povertà e all’immobilismo scenici. Alla domanda su cosa stanno a fare lì i due personaggi, la risposta è: un commercio in cui uno vuole vendere e l’altro forse comprare. Che cosa? Non si sa. Nemmeno si sa se si tratta di qualcosa di immateriale, di concettuale, l’amicizia, l’amore, il potere. Perché uno vuole vendere e l’altro comprare? Non si sa. Forse perché stanno lì e bisogna pur darsi da fare quando in platea ci sono spettatori che guardano e aspettano gli eventi. Se l’evento non c’è, un trucco resta sempre quello di parlare molto e non spiegare nulla, di modo che l’incomprensibilità paia allo spettatore complessità e l’atto stesso di parlare venga scambiato per azione. È il teatro che si giustifica non perché mette in scena l’agire umano, ma perché sulla ribalta d’una sala di pubblico spettacolo ci stanno due attori che parlano a turno. È la cornice che fa il dipinto. Infatti De Rosa scrive nelle note di regia: “Ho riletto La solitudine di Koltès durante il primo lockdown… Ho immaginato il luogo dove si svolge Nella solitudine dei campi di cotone come un teatro vuoto. Ho immaginato il personaggio del venditore come un’attrice dimenticata su un palcoscenico e il cliente come un uomo che viene da fuori. Ho immaginato che la merce attorno alla quale si conduce la misteriosa trattativa tra i due personaggi sia il teatro stesso”. Ho immaginato, ho immaginato. Questo è il cortocircuito: l’autore che lottava per la supremazia del testo ha rafforzato la supremazia del regista dandogli ogni libertà perché non ha spiegato chi fa cosa e perché. Ha imposto le parole ma non le loro ragioni rendendo le prime buone ad ogni uso. Stavolta c’è un metteur en scène che fa un discorso su un teatro vuoto, la prossima potrebbe essercene uno che usa questo dramma per parlare di un supermercato pieno. I supermercati sono un luogo per eccellenza del commercio.
I due interpreti Federica Rosellini e Lino Musella si distinguono per la bellezza delle loro voci, per un eloquio di notevole precisione, per la capacità di controllare la parola e il suo significato nei toni e nelle sfumature recitative (salvo alcuni momenti in cui Rosellini finisce per urlare ma è difficile dire se il fenomeno acustico è da attribuire all’iniziativa dell’attrice o alle indicazioni del regista). Abbastanza bravi da far pensare che un radiodramma sarebbe stato più efficace di un allestimento teatrale.

Marcantonio Lucidi,
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