“Il regno” e “Matteo”, due atti unici di Anton Giulio Calenda, con gli attori del Gruppo della Creta diretti da Alessandro Di Murro. Al teatro Basilica di Roma

Matteo

In scena meglio una rissa di una tesi

Non bisognerebbe fidarsi della memoria, però non abbiamo nient’altro. E qualcosa vorrà pur dire se si ricorda un fatto teatrale meglio di un altro. Dopo qualche giorno resta vivido nella mente l’atto unico intitolato Matteo piuttosto che Il regno. I due pezzi, scritti da Anton Giulio Calenda e proposti prima di Natale al teatro Basilica di Roma fanno parte di una serie di cinque drammi brevi dello stesso autore – tutti messi in scena da Alessandro Di Murro – che una volta al mese si alternano per tre giorni e formano una serie chiamata La regola dei giochi.
Bisogna essere sinceri, stilare una preferenza fra questi atti unici, siccome nessuno è brutto, sarebbe come fare i complimenti a una sola ragazza davanti alle altre quattro. Però la memoria è maleducata, sfacciata (ragion per cui in genere la si tiene a bada con l’ipocrisia), e Matteo, storia coniugale non beneducata perché invereconda e piena di parolacce,  è meno lontano dalla concretezza della vita quotidiana rispetto a Il regno, più astratto e politico.
Privilegiare una crisi di coppia invece d’una catastrofe sociale e culturale comprova forse una caduta nella personale sensibilità etica, magari però è segno d’una drammaturgia più precisa nel caso di Matteo. Più di una tesi, il conflitto a teatro premia sempre, possiede una sua intrinseca spettacolarità, e gli esemplari di maschio e femmina che litigano con una violenza verbale grottescamente eccessiva rappresentano l’inverosimile del vero. Sicuramente in giro c’è gente come questi due, Matteo si masturba mentre la mamma gli telefona, Barbara sogna enormi peni neri, vuole suicidarsi e si lamenta che il sedere non le entra più nei vestiti, tutt’e due sniffano coca, lui dice di volersi fare delle endovene, lei vuole una cucina nuova per fornicare con il primo che passa, ambedue si chiedono se il figlio, sodomizzato a dodici anni, diventerà omosessuale. Attorno a una tavola imbandita per la cena, Barbara e Matteo parlano e litigano come se fossero sfasati: ognuno segue un proprio discorso indipendente dall’altro finché uno dei due riprende una precedente proposizione del coniuge e insieme vanno avanti così in una sorta di zoppia del dialogo. Non si tratta di incomunicabilità, piuttosto di subcomunicazione.
Questa vita di coppia affogata nell’acquitrino di menti in decomposizione, imputridita dalla depravazione dell’amore e dal marciume dell’astio, si svolge in un ambiente di alta borghesia. Brutti, sporchi e cattivi non in una baracca di periferia, ma in un appartamento di quartiere residenziale. Desolazione e squallore di personaggi ingiustificabili, i soldi eliminano anche l’ultima scusa della barbarie, la miseria.
Bruna Sdao e Alessio Esposito sono gli interpreti di due personaggi netti e fissati come in una litografia che con un po’ di mestiere non è complicato restituire sulla scena. Sono figure volutamente pensate dal drammaturgo per non avere mezze misure: l’atto unico è breve, il tempo a disposizione scarseggia, questa è critica di costume veloce che per sintetizzare il suo sguardo lavora sull’esagerazione. Ma si tratta veramente di esagerazione? Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la scena.
L’altro atto unico, interpretato da Valeria Almerighi e Jacopo Cinque con energia e concentrazione, è una sorta di apologo “psico-psichedelico” meno decifrabile, di significato ambivalente, però insomma dovrebbe trattarsi d’un dramma sul potere, il controllo, il comando e la follia o meglio, la paralisi mentale. Il monarca di un minuscolo paese, con gli occhi sbarrati e fissati sul vuoto, seduto su una sedia posta sopra una pedana, cerca di esprimersi contro qualcosa o qualcuno ma non verbalizza, non formula un pensiero ed invece gesticola, emette suoni, grida, si alza, si siede, si muove, si ferma. A parlare al suo posto e girargli intorno, una donna con un microfono in atteggiamento da presentatrice televisiva, non una Carrà però, una delle squallide femmine di oggi da telerissa e televippaio. Forse la videodonnetta dice ciò che ha in testa il piccolo re autistico. Minuscola macchina celibe ormai, sovrano d’un regno la cui superficie corrisponde all’area della sua microscopica mente, monarca d’un secchiello pieno d’acqua che lui confonde con il mare della realtà. Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la speranza degli uomini.

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.