“Il calapranzi” di Harold Pinter, interpreti Simone Colombari e Claudio Gregori che dirigono se stessi. Al teatro Garbatella di Roma

Il calapranzi

L’inferno siamo noi

Rimane un bellissimo testo Il calapranzi di Harold Pinter, scritto nel 1957 quando l’autore aveva ventisette anni e rappresentato per la prima volta il 21 gennaio 1960 al Teatro Club Hampstead di Londra. The dumb waiter, questo il titolo originale, è il secondo lavoro, dopo The room (La stanza) del figlio d’un sarto ebreo del borgo londinese di Hackney destinato a diventare uno dei maggiori drammaturghi del Novecento.
Da questo testo giovanile, divenuto un classico del Teatro dell’Assurdo, già si capisce che Pinter era fin dagli esordi un fuoriclasse. Lo denota il fatto, evidente nella rappresentazione che ne hanno dato al teatro Garbatella di Roma Simone Colombari e Claudio Gregori, che il dramma appartiene al contempo al periodo storico in cui è stato scritto e agli anni attuali. Si appoggia a un principio prima ancora che alla situazione che ne consegue. Quindi l’autore non è semplicemente un costruttore, per quanto abile, di macchine drammaturgiche, ma un pensatore che trova nelle strutture dell’arte teatrale l’organizzazione estetica, etica e comunicativa a lui più congeniale per esprimersi. Il principio di cui tratta Il calapranzi è la natura del potere nella sua inconoscibilità, nel processo logico misterioso che lo guida e che deve rimanere ignoto all’individuo, chiamato a servire e non a capire. Si tratta di un dramma politico con il quale Pinter svolge il tema universale dell’autorità con una sensibilità contestataria e dissacratoria molto anni Sessanta, così come Molière nel Seicento prendeva in giro al modo del tempo suo la scienza e le presuntose certezze di medici egocentrici e invadenti, argomento di stretta attualità televisiva.
Il calapranzi realizza completamente il postulato di Ionesco, fondendo la tragedia con la farsa più divertente”, è la constatazione di un saggista e critico teatrale che coniò l’espressione “teatro dell’assurdo” come titolo di un suo famoso saggio del 1961 e che da subito aveva capito tutto di Pinter.
I due sicari Ben e Gus prendono possesso di un seminterrato sporco e in disordine. Devono attendere le istruzioni dell’organizzazione sulla vittima da uccidere. Ben si sdraia su una brandina e si mette a leggere il giornale. Sembra tranquillo. Sembra. Gus, il sottoposto, appare più agitato, vuole preparare il tè ma non ha fiammiferi. Qualcuno, non si sa chi, fa scivolare dei cerini sotto la porta però manca il gas. La coppia di killer non sta in un posto confortevole. Nel retro del seminterrato c’è un calapranzi che improvvisamente si mette in moto e fa scendere un ordine su un foglietto: “Due brasati con patate fritte. Due budini. Due tè, senza zucchero.”. Frugando nella borsa di Gus, trovano una tavoletta di cioccolato. mezzo litro di latte, un pacchetto di tè, uno di salatini, biscotti, una tartina al limone, mettono tutto nel calapranzi che risale. I sicari scoprono che c’è anche un portavoce che collega il seminterrato con il piano superiore. Qualcuno rimprovera loro che la tartina era andata a male, il cioccolato sciolto, il latte rancido e i biscotti sapevano di muffa. Adesso le potenze dell’alto non smettono più di inviare ordini gastronomici – anche piatti strani, ormitha macarounada, pollo con bambù, char siu e soia – ai due uomini, serrati nell’angoscia di un thriller surreale. Contrariamente a un dramma di Beckett nel quale non avviene niente, qui succedono un sacco di cose che però non significano nulla. Questa è la ragione del terrore che prende Ben e Gus. Si instaura una suspense senza motivo, raccontata con un linguaggio elementare. Il dialogo è composto di parole comuni, banali, e serve a chiacchiere su minimi fatti di cronaca  (un uomo di ottantasei anni che s’infila a quattro zampe sotto un camion e resta schiacciato), sulle tazze da tè con la riga bianca attorno all’orlo, su quale squadra di calcio giochi fuori casa oggi. Questione centrale della conversazione: è più corretto dire “accendi il gas” oppure “accendi l’acqua”?
Porre l’attenzione su fatti marginali impedisce al dramma, che è politico e sociale, di gonfiarsi d’una pretesa realistica e permette a Pinter di trasformare gente qualunque di una classe sociale bassa in una visione poetica. L’anormalità di questi due personaggi che fanno i killer e maneggiano revolver finisce per ingigantire la loro caratteristica di persone anonime che subiscono il potere di un’autorità altrettanto anonima ma dai comportamenti assurdi. L’assurdo non è in chi sta in scena, ma in chi è assente eppure si manifesta, ancora una volta all’opposto di Beckett in cui chi non c’è semplicemente non c’è.
Simone Colombari (Ben) e Claudio Gregori (Gus), i quali dirigono se stessi, fanno una cosa molto piacevole di questi tempi in cui moltitudini di registi si sentono le capocce adatte a scompigliare i testi dei grandi drammaturghi con idee spettinate: mettono in scena Il calapranzi come il vecchio caro Harold lo ha scritto, salvo la mancanza di uno dei due letti previsti dall’autore. Probabilmente perché in questo modo si sentono facilitati nell’accentuare una gerarchia fra i due personaggi che ritengono necessaria per un certo taglio interpretativo: intendono stabilire all’inizio non una relazione fra un comico e una spalla, ma similmente a quella che corre fra un clown bianco e un augusto, fra l’uomo d’ordine e l’anarcoide. Il primo, Ben, sdraiato sul letto, sta più fermo e calmo; il secondo, Gus, privo di branda, è costretto a muoversi, camminare, sedersi, rialzarsi, dando una sensazione di scompostezza e inquietudine. Poi, senza fretta ma senza indugio, tenendo un ritmo accelerato solo dagli improvvisi e rumorosi saliscendi del calapranzi, vanno verso il tragico. Un tragico costruito sulla distanza fra la causa, mai misurabile come ordine di grandezza e in sostanza statica, e la conseguenza che invece sale sempre più verso l’enorme in una successione di stadi dell’esagerazione. È sui progressivi livelli di agitazione che i due interpreti giocano per ottenere l’effetto comico. Non puntano al tragicomico, non cercano di rendere comico ciò che è tragico come in uno sketch di Stanlio e Ollio (i quali peraltro sono un augusto e un bianco). La bravura di Colombari e Gregori è di raggiungere invece una sorta di “comitragico”, rendere tragico ciò che è comico, senza smettere di fare ridere, almeno fino al finale in cui la verità si rivela. E la verità non è né tragica, né comica ma sempre assurda; non fa piangere e non fa ridere ma è divertente.
“Tutto è divertente – spiegò Pinter in un’intervista alla Bbc il 7 agosto 1960 – la più grande serietà è divertente. Io credo che quello che cerco di fare nei miei lavori sia questo: cogliere la riconoscibile realtà dell’assurdità delle azioni che compiamo, del nostro comportamento e del modo in cui parliamo”. Parte delle opere pinteriane è basata su questa domanda: cosa succede se si mettono due uomini in una stanza e si chiude la porta? Che fanno degli esseri umani in un posto dal quale per un qualche motivo, concreto o astratto, non possono andare via? “L’inferno sono gli altri” è una delle ultime battute di A porte chiuse di Jean-Paul Sartre. In Pinter l’inferno siamo noi. E questa constatazione è divertentissima.

Marcantonio Lucidi,
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