“Lezione da Sarah”, elaborazione drammaturgica Pino Tierno, con Galatea Ranzi e Martina Galletta dirette da Ferdinando Ceriani. Al teatro Off Off di Roma

Lezione da Sarah

Corpo, voce, memoria, cuore, anima

Lezione da Sarah, elaborazione drammaturgica di Pino Tierno da L’arte del teatro di Sarah Bernhardt, è tutto sommato una vera lezione di arte dell’attore che gli allievi delle varie accademie, scuole, scuolette di recitazione dovrebbero accorrere a vedere in massa al teatro Off Off di Roma. Così forse le innumeri schiere di future Duse e prossimi Salvini (Tommaso) o, più modernamente, di nuove Moriconi e neo Gassman, si accorgerebbero della durezza di un addestramento serio al palcoscenico, della tenacia necessaria, della sofferenza inevitabile, degli squarciamenti che attendono l’orgoglio dei novizi. L’apprendistato teatrale è una discesa nella miniera di se stessi, in fondo al pozzo nella maggior parte dei casi non vi è traccia di oro, a volte vi si trova un po’ di piombo. Per di più, a vedere la bravura di Galatea Ranzi che interpreta Sarah e Martina Galletta, anche autrice delle musiche, nel ruolo dell’allieva, può succedere che un giovane temerario, o una giovane, misurando finalmente la distanza che lo separa dalle due attrici in scena, prudentemente rinunci all’arte e decida di impiegarsi come casellante dell’autostrada. La richiesta è alta, il posto sicuro e pare che si guadagni bene.
Sarah Bernhardt (Parigi 1844 – 1923). forse la più importante attrice dell’Ottocento, l’Imperatrice del teatro, come la chiamavano, la voce d’oro per Victor Hugo, il mostro sacro secondo l’espressione inventata per lei da Jean Cocteau, si appresta a dare una lezione di recitazione a una giovane artista. La ragazza si chiama Marie Dubois ma non è l’attrice scomparsa nel 2014 che ha lavorato con Truffaut e Visconti e che, nata nel 1937, non ha potuto conoscere la Bernhardt. Una Marie Dubois attrice è ritratta in una fotografia del 1887 di Nadar. In quell’anno Sarah è nel pieno della sua maturità, della sua forza, della sua arte. Si è rumorosamente dimessa dalla Comédie-Française, il tempio del teatro classico francese, ha già fatto varie volte la Fedra di Racine, una delle sue più acclamate interpretazioni, e ha fondato una compagnia con la quale gira il mondo a raccogliere applausi.
La ragazza che entra in scena è impacciatissima, impauritissima, ha appena rovesciato un fondale con una colonna dipinta. Poverina, non ha l’abitudine al palcoscenico, è pure accecata dai proiettori e questo potrebbe essere un anacronismo visto che la luce elettrica in quegli anni cominciava appena ad illuminare i teatri. Il primo a installarla nel 1878 è l’enorme Hippodrome di Parigi che stava devanti al ponte dell’Alma e poteva ospitare seimila spettatori. Tuttavia la nuova tecnologia ci mise tempo ad imporsi. Ma qui non ci si cura delle date, conta piuttosto l’educazione artistica che la grande attrice impartisce alla giovane in uno spettacolo dalla struttura che ricorda l’Edmund Kean di Raymund FitzSimons: una situazione data – in Kean il grande attore che monologa nel suo camerino, qui  invece le lezioni impartite dalla diva – viene usata come pretesto per un discorso sull’arte del teatro e per l’interpretazione di alcuni  grandi pezzi del repertorio classico, in questo caso francese. La giovane recita la Chimène del Cid di Pierre Corneille che cerca vendetta e chiede al re di Castiglia la testa dell’uomo da lei amato, Rodrigo. Sarah però detesta Corneille perché, dice, “Corneille, il sublime Corneille, non sa fare parlare le donne! Nessuna delle sue eroine (eccetto Psyché) è veramente una donna. Pontificano, il loro cuore non è nel loro petto ma batte nella loro testa”. Lei ama Racine. Le donne di Racine sono le donne di tutti i secoli, dalla nascita del mondo ad oggi. Sono quelle che verranno domani, sono quelle che sempre nasceranno. Ama la Fedra, la più toccante, la più pura, la più dolente vittima dell’amore: “Il n’est plus temps. Il sait mes ardeurs insensées. / De l’austère pudeur les bornes sont passées. / J’ai déclaré ma honte aux yeux de mon vainqueur, / Et l’espoir malgré moi s’est glissé dans mon cœur”. Questa è la traduzione di Giuseppe Ungaretti: “Non è più tempo. Sa le mie manie insensate. / Dell’austero pudore varcati sono i limiti / E dichiarata agli occhi / Di chi mi ha vinto, la vergogna mia; E la speranza si è / Mio malgrado, insinuata nel mio cuore”.
Sono splendidi i duetti di Ranzi e Galletta, la prima che deve oscillare fra le severità, le occhiatacce, le impazienze di Sarah e la passione, le parole ardenti, i fuochi dello spirito dell’eroina raciniana; l’altra che ha da riuscire nella difficilissima impresa di fingere una cattiva recitazione e dispiegare poi una bravura e un mestiere degni di questi pezzi di gran teatro. La regia di Ferdinando Ceriani non si fa notare, ma sta dietro le interpreti e come l’asta del funambolo garantisce loro equilibrio e sicurezza.
Anche a Sarah capita di abbandonarsi a qualche luogo comune sull’arte. Dice alla ragazza: “Vengono per vedere divorare il domatore, alla fine dovrai essere tu a divorare loro”. Ma non importa perché pronuncia le parole giuste: corpo, voce, memoria, cuore, anima. Un attore è questo. Camminare, respirare. Prendere una sedia e sedersi in scena. Quanti modi ci sono di sedersi in scena? Migliaia, regale, disperato, ironico, con un’impercettibile alzata di spalle. Tutto è teatro, quindi vita e passione, la ragazza piange, la fatica, lo sforzo sono enormi, la maestra è un nerbo, sibila la frustata del suo scontento. Tutto è scena, anche la platea, sul palco vengono chiamati degli spettatori a dare la battuta alle attrici. Tutto è interpretazione e Amleto può essere recitato da una donna, come faceva Sarah con la sua famosa voce, così esageratamente impostata e antinaturalistica:  “Va’ in un convento. Perché ti vuoi fare procreatrice di peccatori? Anch’io son virtuoso abbastanza, e  tuttavia mi potrei incolpar di tali cose, da pensar che sarebbe stato meglio mia madre non m’avesse partorito”.
Per Sarah deve ancora venire il tempo dell’amputazione della gamba, a 70 anni, nel 1915, a causa di una tubercolosi ossea del ginocchio, menomazione grave che però non la fermerà; il suo trattato L’arte del teatro: La voce, il gesto, la pronuncia, che detta negli ultimi tre anni della sua vita, fra il 1920 e il 1923, uscirà poco dopo la sua morte quando anche lei diventerà, per sempre, una volta per tutte, un Amleto: “Oh se ne avessi il tempo, se la morte meno inflessibile mi concedesse un istante di tregua, vi direi… ma sia così”.

Marcantonio Lucidi,
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