“Canaglie”, testo e regia di Giulia Bartolini. Con Giulia Trippetta, Grazia Capraro, Luca Carbone, Francesco Cotroneo. Al teatro Le Maschere di Roma

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La favola della borghesia lazzarona

Ecco una commedia nuova scritta e diretta da un’autrice e regista giovane uscita dalla “Silvio D’amico”, Giulia Bartolini, interpretata da quattro suoi colleghi d’accademia: Giulia Trippetta, Grazia Capraro, Luca Carbone, Francesco Cotroneo. Tutti bravi, formano con la regista un bel gruppo che si spera proponga in futuro nuovi spettacoli. Hanno ritmo teatrale, tempi comici, presenza scenica e sanno lavorare nel collettivo. Si sono impadroniti di questa specie di black comedy che s’intitola Canaglie, in scena alle Maschere di Roma, e ne hanno fatto uno spettacolo tutto dialoghi e recitazione, senza scenografie salvo tavolo e sedie. Questo è un modo di stare in scena nel quale gli interpreti lavorano sui fondamentali del teatro, voce, corpo, testo. L’essenzialità è piacevole, dà un senso di intimità. In una situazione di pauperismo teatrale, l’attore pare offrirsi senza remore al pubblico, il quale prova un misto di appagamento e crudeltà di fronte alla possibilità d’una caduta dell’artista che mai auspica però, in quanto il piacere non sta nell’errore ma nel timore dell’errore. Pari a quello che si prova quando si osserva il filferrista sulla corda fra un grattacielo e l’altro. Si sta come in attesa sulla curiosità gli spettatori.
La situazione di partenza è presto detta: una famiglia italiana con una madre e tre figli, una femmina e due maschi, il prediletto e il negletto. Non sono persone normali, tirano a campare truffando la gente, rubano e delinquono. I piani di lettura della commedia sono tre: il primo è di contentarsi d’un piccolo thriller brillante e distraente che si sviluppa come un divertissement teatrale; il secondo è di ritenere il thriller un pretesto per  inscenare le dinamiche di un gruppo di famiglia in un interno chiuso, esclusivo, ciecamente votato alla propria sopravvivenza, e osservare le interrelazioni di questi personaggi, i rapporti fra i fratelli e la madre, donna autoritaria e perbenista malgrado l’attività del gruppo; il terzo piano è sintetizzato da un passaggio della presentazione dello spettacolo: i personaggi “sono moderni, parlano di una società contemporanea, ma è come se fossero, nei costumi, nei colori, nell’immaginario, bloccati in un’Italia che non esiste più, a raccontare quella sindrome dell’epoca d’oro che tutti noi conosciamo bene”. Qui sta l’aspetto più interessante della commedia e il più difficile da sviluppare. Sta nell’esperienza quotidiana la sensazione di un paese che da molti anni sbatte indefesso contro il principio di realtà e si fa sempre molto male; che vive in maniera paradossale e grottesca la distanza tra l’idea collettiva che il popolo italiano ha di sé, ritenendosi sempre e comunque protetto da uno stellone provvidenziale e da un’unicità assolutoria, e le degenerazioni politiche, culturali, sociali, economiche in cui da decenni arranca penosamente.
Però mai vedere lo spettacolo che non c’è e sempre quello che effettivamente s’offre: semplicemente s’intuiscono nel testo elementi d’una critica alla comunità nazionale che l’autrice e regista sceglie di tenere in sottofondo. Bartolini resta legata al tema della famiglia, la struttura su cui comunque poggia la società italiana che si corrompe in familismo amorale, in claustrofobico egoismo clanico. La matriarca di questa banda di piccoli criminali s’atteggia a donna di classe, porta il filo di perle, confonde l’educazione con l’affettazione, l’eleganza con le smancerie, è uno specimen della signora pariolina o sanbabilina o di Posillipo. A volerle dare forza simbolica, si potrebbe dire che rappresenta la borghesia italiana postbellica, che si è affrancata dalla fame e dai pidocchi e ruba, evade le tasse, porta i soldi in Svizzera, tiene la cameriera a nero, raccomanda e si fa raccomandare, trucca i concorsi, prediligendo quelli universitari, e fa carte false pur di arricchirsi a spese delle altre tribù amorali. Una classe media mediocre che teme sopra ogni cosa la mano pubblica e comprensibilmente, essendo lo Stato italiano e le sue amministrazioni occupati prevalentemente dalla stessa classe media mediocre e immorale.
Il finale è un atto di dissoluzione e arriva dopo un colpo di scena che, come tutta la commedia, copre sotto il velo dello scherzo un’ipotesi critica. Ma la mano drammaturgica e registica di Giulia Bartolini ha una levità, una sorta di ritrosia, da rendere lo spettatore dubbioso sul significato da dare allo spettacolo. Ci si chiede se si tratti di coincidenze, oppure di malizia da parte della drammaturga, del gioco di nascondersi. Succede che gli argomenti del giorno stiano nella penna ed escano fuori spontaneamente quando magari si sta scrivendo una favola per bambini. Tuttavia l’autrice sostiene che la sua commedia è proprio una favola e la caratteristica essenziale della favola, secondo la Treccani, è di racchiudere una verità morale o un insegnamento di saggezza pratica.

Marcantonio Lucidi,
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