“Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa”, regia e drammaturgia di Eugenio Barba, Julia Varley e di Lorenzo Gleijeses anche interprete. Al Quirino di Roma

Una giornata qualunque del danzatore

Buongiorno oscurità, nostra vecchia amica

A un certo punto della rappresentazione, in coincidenza d’un momento di calma relativa, Lorenzo Gleijeses disteso a terra come un grosso insetto esausto dopo una serie di contorcimenti, spasmi e sofferenze, prende a canticchiare The sound of silence di Simon and Garfunkel. Non si tratta d’una scelta casuale, d’aver pescato questa fra tante altre melodie dolci e malinconiche atte a siglare un sentimento del personaggio e carezzare l’orecchio dello spettatore. Viene invece al modo d’un gemito per l’insoffribile situazione, come quando uno si trova solo in una stanza d’albergo ancora sveglio a notte fonda a smanacciare l’aria contro le zanzare e ricade stracco sul letto a lamentarsi con la più appropriata delle citazioni:  “Non altrimenti fan di state i cani / or col ceffo, or col piè, quando son morsi / o da pulci o da mosche o da tafani” (canto XVII dell’Inferno).
Si può prendere dal lato della canzone di Simon and Garfunkel lo spettacolo in scena al Quirino di Roma, Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, regia e drammaturgia a sei mani: in primis dello stesso Gleijeses anche attore e performer, quasi danzatore e ginnasta, sicuramente interprete di notevole potenza e tecnica; poi di Eugenio Barba, il gran maestro internazionale fondatore dell’Odin Teatret che nel ’76 scrisse il manifesto programmatico di quel Terzo Teatro che non si riconosceva né nella tradizione né nella sperimentazione, stava ai margini, ma che col passare degli anni è comunque diventato un marchio; e di Julia Varley, l’attrice simbolo dell’Odin.
Le prime parole di The sound of silence recitano: “Hello darkness, my old friend / I’ve come to talk with you again (Ciao oscurità, mia vecchia amica / son venuto per parlare ancora con te). Tenebre alla Gregor Samsa della Metamorfosi di Kafka sono in questo spettacolo evocate, e trasformazioni metaforiche dell’uomo in scarafaggio. Però è altra cosa dal romanzo. All’inizio sembra di assistere a una tragedia della perfezione. Protagonista un danzatore incarcerato nell’ossessione della ripetizione dei movimenti coreografici come unica via per il raggiungimento di una precisione tecnica assoluta. Ripete, ripete e ripete e ancora e ancora, corre, salta, piroetta, cade, rotola, striscia, s’erge, si torce, si contorce, finché come locuste ogni gesto, ogni postura si trasferiscono dal corpo alla psiche e invadono i paesaggi interiori, colonie di bacarozzi nella casa sgovernata della mente, mosche demoniche nell’anima occupata e posseduta. È una delle possessioni moderne, anche nelle cose d’arte, l’idea che la ripetitività da catena di montaggio, la riproducibilità meccanica del gesto robotizzato portino a una compiutezza senza difetto. L’orrore dell’errore, suprema forma del bigottismo, automatizza l’uomo in un automa alimentato dal terrore del divenire, realizzabile solo per tentativi e pecche, e lo gela nel presente, nella staticità del conservatorismo più reazionario. Ecco perché questo spettacolo non è una riproduzione scenica della Metamorfosi ma ne rappresenta tutto sommato l’opposto. Il romanzo kafkiano come storia di un’involuzione è comunque il racconto di un movimento mentre questo spettacolo si rivela, attraverso la stupefacente serie di movimenti che dipana, la tragedia della fissità. La perfezione è morte, nel cosmo esiste un pianeta, almeno uno, sul quale si svolge la Storia, che è l’avventura delle erranze, degli sbagli, delle imperfezioni e che infonde vita, anima, spirito nella spaventosa ripetitività della materia, del nascere e morire, nella condanna dell’apparire e scomparire. La ripetizione è un moto infantile, impegna l’impaurita mente del bambino nella pretesa di una confortante favola immutabile, di un racconto fissato una volta per tutte e sempre uguale sera dopo sera. Guai se per una volta, almeno una volta, Cenerentola non perde la scarpetta ma un guanto, il guanto della sfida all’eterno ritorno della mela di Biancaneve e del serpente di Adamo ed Eva.
La prova di Lorenzo Gleijeses è fisicamente impressionante. Per fare uno spettacolo così impegnativo, al punto che probabilmente l’attore ogni sera perde chili, bisogna essere molto allenati. Performer solista, unico compagno un robottino delle pulizie quasi sempre in moto, il pubblico assai vicino ospitato sul palcoscenico del teatro, si affida interamente al proprio corpo, alla forza del proprio corpo, per raccontare una psiche, la debolezza di una psiche. Magnifico e teatrale paradosso di pelle che annega di sudore e d’occhi che scoppiano di dolore. Gregorio torna nel suo appartamento dopo la spasmodica prova tersicorea, i rotolamenti, i ghigni dello sforzo, le contorsioni delle membra, il regista, il maestro gli dice, è la voce registrata di Eugenio Barba, che non va, hai dimenticato troppi dettagli, ricomincia, e lui ricomincia, ripete tutta la coreografia, come prima, forse cambia qualcosa, no, per oggi basta così, vai a casa, e lui va a casa, e agisce di nuovo tutto d’un fiato, come se ancora stesse in prova, si cambia, va in bagno, si lava, ora è un mimo post-moderno, ipercinetico ma ogni movimento è come fermo, pare muoversi freneticamente la sequenza e non il gesto, ogni tanto accenna un passaggio delle prove, allucinato nella fissità dell’ossessione, incubo, sottomesso alla schiavitù della possessione, succubo. A volte, ma forse non è vero, appare qualcosa di Monsieur Hulot, una specie di fuoriuscita del surreale ma senza ingenuità, senza candore né stupore, è sfiato d’anima in pressione, il robottino vaga d’attorno. “Maestro – ha chiesto alla fine delle prove – ma la nostra strada è importante per il mondo?” Questa è la domanda dello spettacolo, teatrale e metateatrale, nel senso che la porge Gregorio ma chiaramente la formula anche Lorenzo. Quindi è logico che arrivi un momento in cui, su un altro piano il personaggio e l’attore quasi si confondono ma con molta ironia, ché qui il tragico nel tragico diverrebbe subito retorica melassa della disgrazia: il messaggio telefonico del padre di Samsa è la voce registrata del padre di Gleijeses, Geppy, attore pure lui, regista e gestore del Quirino per chi non lo sapesse. E uno subito pensa scioccamente: ecco qua, ora al pubblico si fa fare il bagnetto nella psicanalisi, la nevrosi, il complesso, la colpa. Il figlio fa lo stesso lavoro del genitore, siamo al tentativo di uccisione del padre, invincibile, a un desiderio di superamento del padre, insuperabile. Invece no, è soltanto un gioco teatrale di divoramento del padre, immangiabile come la suola di una vecchia scarpa. Spettatore, ipocrita spettatore, non confondere mai l’attore con il personaggio come ancora fa qualche strizzacervelli digiuno di teatro.
Avanti Gregorio Samsa, avanti sulle musiche originali e le luci di Mirto Baliani, sulle coreografie di Michele Di Stefano, corri nella follia della perfezione verso l’annullamento della distinzione fra immaginario e reale, fra scena e mondo, laddove la confusione non è metateatrale fra Gregorio e Lorenzo ma teatrale fra Gregorio e l’idea che Gregorio ha di sé, fra un uomo e l’idea di se stesso. Fatta salva una più sotterranea ed ironica identificazione fra interprete e personaggio: che per arrivare a un simile risultato il primo abbia dovuto lavorare quanto il secondo. Avanti scarafaggio, precipitati nel punto dove credi che l’annientamento di te stesso coincida con un nuovo equilibrio e ti troverai spillato come un insetto nella bacheca di un entomologo dalla telefonata della tua fidanzata. Non esistono solo i suicidi morti ma anche quelli vivi.
Quale è in tutto ciò il ruolo di Eugenio Barba che per la prima volta firma una regia senza gli artisti del suo Odin Teatret? E di Julia Varley? Lo spettacolo di Gleijeses si può definire una drammaturgia di attore, nel significato che lo stesso Barba offre: “Con questo termine intendo la capacità da parte dell’attore di creare autonomamente materiali scenici – modi di muoversi, camminare, comportarsi, parlare, scrivere o selezionare brani di prosa o poesia, improvvisare scene, fissarle, distillarle. Su questo materiale sorto dall’immaginazione e dall’esperienza individuale, si fonde gradualmente il testo finale, dando così nascita al personaggio”. Non di più, non di meno si potrebbe dire del seicentesco artista di Commedia dell’Arte o del grande attore all’italiana ottocentesco. Nelle questioni di teatro non esistono invenzioni ma scoperte e ritrovamenti. Allora non ha importanza chi ha fatto cosa, conta che Barba e Varley abbiamo saputo accompagnare Lorenzo Gleijeses sulle lunga strada di questa sua opera teatrale durata mesi, anni, giorni, notti. Alla ricerca del nuovo nell’antico. Per favore, riprendete le ricerche.

Marcantonio Lucidi,
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