“Intramuros” di Alexis Michalik, regia di Virginia Acqua. Interpreti, fra gli altri, Carlotta Proietti, Gianluigi Fogacci ed Ermenegildo Marciante. Alle Praterie della Capraia di Capodimonte, Napoli.

Intramuros

Il passato è una porta di ferro

Non ci poteva essere momento migliore per mettere in scena il testo di un autore parigino ambientato in una prigione francese. A Napoli, a meno di quaranta chilometri da Santa Maria Capua Vetere. Intramuros di Alexis Michalik, allestito per il Campania Teatro festival su un palcoscenico montato all’aperto alle praterie della capraia di Capodimonte, non si occupa in particolare dell’universo carcerario e dei suoi problemi ma ci passa dentro per raccontare un dramma amoroso e familiare. E sembra proprio che, per quanto la cronaca informa che anche in Francia nei penitenziari ci sono problemi, da quelle parti non avvengano le selvagge macellerie documentate dalle telecamere del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nel dramma di Michalik si parla anche di sorveglianti civili e gentili e allo spettatore viene subito da pensare ai criminali e torturatori della polizia penitenziaria italiana e degli agenti antisommossa che hanno massacrato di botte i detenuti di quella prigione. Il buon teatro, di oggi o del passato, è sempre contemporaneo e pone ogni volta, direttamente o indirettamente, la domanda del giorno. Che paese è l’Italia? Un paese nel quale la prima dichiarazione del ministro di grazia e giustizia Marta Cartabia di fronte alla barbarie è stata di rinnovata fiducia nei confronti del corpo di polizia penitenziaria.
Vi è un altro aspetto della situazione italiana al quale involontariamente questo spettacolo fa pensare: se si va su Wikipedia a leggere il curriculum di Michalik, si intuisce come questo attore, regista, drammaturgo, sceneggiatore e romanziere non ancora quarantenne abbia avuto la possibilità di sperimentare, cercare, lavorare, imparare, provare, anche rifiutare. Da quando ha incominciato non è mai stato fermo. Ha già vinto due premi Molière come autore, due come regista e un suo spettacolo nel 2017 ne ha presi cinque. Si tratta chiaramente di un artista di talento che però ha dalla sua il sistema francese di produzione e promozione di cinema e teatro sovvenzionato, curato, appoggiato, spalleggiato dallo Stato, dai governi e da generosi contributi pubblici. Sicuramente oltralpe le cose nel campo della cultura non sono perfette, come non lo sono nell’ambito carcerario. Però la Francia è una grande potenza culturale mentre l’Italia fa figura di una piccola sporca galera nella quale uno Stato e degli enti locali gaglioffi hanno rinchiuso gli artisti e ogni tanto entrano a manganellarli virtualmente a colpi di circolari assurde, ricatti clientelari, riduzioni o dinieghi di fondi, burocrazie corrotte, analfabete e incapaci.
In una situazione simile è difficile che da noi possano nascere una cinematografia e un teatro di successo internazionale come in Francia, con drammaturghi, sceneggiatori, registi, attori messi nelle giuste condizioni per lavorare. Intramuros è un testo ben scritto con colpi di scena, nascondimenti, disvelamenti, rivelazioni, agnizioni tipici del modo francese di scrivere pièces. Si racconta di un regista che insieme a un’attrice sua ex -moglie e a un’assistente sociale offrono un corso di teatro ai detenuti di una prigione. Viene inizialmente il sospetto che si assisterà a una di quelle rappresentazioni di teatro nel teatro, teatro che inscena il teatro e parla di teatro, per giunta nel contesto politicamente corretto del laboratorio per il recupero dei reprobi. Invece lentamente, con una bella mano drammaturgica, Michalik prende a tessere la sua tela narrativa, filo dopo filo, attraverso le storie di una gran quantità di personaggi, all’incirca una trentina. La vita è una prigione, il passato è la sua porta di ferro.
In scena appena cinque interpreti che, ben diretti da Virginia Acqua, fanno funzionare a dovere l’affollata drammaturgia di Michalik. A dimostrazione che la nostra gente di teatro qualcosa la sa fare.
Si scoprirà che il laboratorio nasce da una motivazione lontana dall’obbiettivo del reinserimento sociale dei detenuti. Rivelare le ragioni che sottostanno alla situazione non si può, sarebbe un misfatto. A teatro gli intrighi con delitto sono benvenuti, vietati invece i delitti contro gli intrighi.
La storia è intricata però mai complicata, anche grazie alla regia chiara e lineare nella sua strategia di messa in scena che sbroglia velocemente e con brevi segni la difficoltà di raccontare con pochi interpreti una vicenda piena di personaggi ed in continuo andirivieni fra passato e presente. Si vede una specie di arte d’arrangiarsi teatrale all’italiana abile a sfruttare gli scarsi mezzi trasformando la povertà in essenzialità. Illusione scenica che è magia ingannatrice del teatro e che trasferisce sugli attori un carico di lavoro di doppie, triple, quadruple parti con l’obbligo tecnico di non capitombolare nel confuso e nell’incomprensibile e la necessità artistica di “tenere” ogni personaggio come un’atleta ch’avesse da fare al contempo i cento metri e il salto con l’asta.
Sfida non facile a cui gli attori sono chiamati e che ciascuno risolve a volte bene, a volte come può. Carlotta Proietti, nota per le sue doti comiche, lavora sul registro drammatico dando l’impressione di non essere certa della propria agilità interpretativa. Non fa mai l’errore di passare al personaggio successivo portandosi appresso il precedente ma in certi momenti sembra anticiparlo. Cambia tattica, ossia il tono, meno la strategia, cioè la tonalità, come se un pittore cambiasse pennello, quindi la pennellata, ma restasse sulla stessa scala di colore. Dal canto suo, Gianluigi Fogacci sceglie di non caricare la propria prova, di rifugiarsi nella sottrazione e nella ritrosia. Mettersi al riparo è segno di consapevolezza delle difficoltà, togliere è una scelta stilistica, l’importante sta nel perseguirla coerentemente, anche se Fogacci qualche occasione forse la manca. Ermenegildo Marciante possiede ritmo, tempi teatrali, sa quando muoversi, quando fermarsi, si prende il suo spazio, lo lascia agli altri e offre una bella interpretazione. Incostante Valentina Marziali che in certi momenti stona la battuta e la accompagna con una gestualità falsa, altre volte invece lavora con maggior perizia e precisione. Raffaele Proietti non riesce a raggiungere lo spessore teatrale che le difficoltà del progetto registico richiederebbero perché commette l’errore di fingere una recitazione naturale. La recitazione è come l’acqua di Achille Campanile: naturale o minerale? “Naturale, acqua minerale. Non le sembra naturale che io beva acqua minerale?”.

Marcantonio Lucidi,
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