Dello spettacolo dal vivo ai tempi dell’epidemia

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Lettera di un innamorato della gente di teatro

La parola “teatro” senza la “a” di “arte”, di “attore”, di “assembramento” (assembramento di spettatori), diventa “tetro”. Il teatro nei nostri giorni di epidemia è tetro. O meglio, il mondo privo di teatro è tetro. In queste ultime settimane di contenimento e di universale reclusione, si sono sentite molte parole sul teatro e sullo spettacolo dal vivo in generale: proposte, suggerimenti, soluzioni, idee, a volte vere scempiaggini, lamentazioni, grida di dolore, proclami, appelli. Parole però pronunciate quasi soltanto dalla gente di palcoscenico. Quando proferite, rare volte, da soggetti non pratici del mestiere, o scritte da sbattipenna di quotidiani, sono state generate da un’incompetenza ridicola, soprattutto dannosa. A dimostrazione che fuori dall’ambiente, purtroppo, di teatro non capisce nulla quasi nessuno, segno sicuro di una ormai comprovata marginalità della scena rispetto al dibattito pubblico sulla nostra società, sulla polis.
Tuttavia il fatto veramente grave di fronte alla catastrofe attuale e al prossimo naufragio dello spettacolo dal vivo e dei suoi lavoratori, è il menefreghismo della politica. Menefreghismo che ignora le centinaia di migliaia di lavoratori dello spettacolo (il calcolo del loro numero è reso complesso e incerto dalla natura del mestiere artistico e dalla varietà delle figure professionali, con conseguente scarsa affidabilità dei dati Inps). Il gruppo Fca – Fiat Chrysler Automobiles – conta in Italia appena 66mila dipendenti.
Il ministro che non c’è, il ministro ombra di se stesso dei Beni e delle attività culturali Dario Franceschini, molto occupato a fare il suo vero lavoro di uomo di partito come capo delegazione Pd nel governo, ha comunque qualche giorno fa mostrato di essere in vita. Ha proposto una Netflix del teatro e della cultura: “Ci sarà chi andrà a vedere la prima della Scala a teatro e chi pagando la vedrà da casa”. Parole in libertà, gargarismi nello spazio. Di fronte alla dimostrazione di una tale mancanza di volontà di studiare e capire la materia, malgrado questo signore abbia già fatto il ministro dei Beni culturali per quattro anni (dal 2014 al 2018), passa pure la voglia di commentare. Ma quando annuncia un fondo di emergenza (inserito nel decreto “Cura Italia” varato dal governo il 17 marzo) di 130 milioni di euro nel 2020 per lo spettacolo e il cinema a sostegno di operatori, autori, artisti, interpreti ed esecutori e a favore di investimenti finalizzati al rilancio, allora sorge il sospetto che il ministro stia umiliando un mondo che, secondo i dati Siae, nel 2018 ha prodotto un volume di affari di 6 miliardi e 855 milioni (di 4 miliardi se si toglie l’attività sportiva). Di fronte ai miliardi, alle migliaia di miliardi di cui si sta parlando per tenere in piedi il Paese, 130 milioni non sono un piatto di lenticchie, sono un’offesa.
C’è comunque da chiedersi se arriveranno, tutti questi miliardoni (e la stella di Negroni) per l’emergenza Coronavirus, perché per ora si sono visti solo i famosi 600 euro dati a meno di tre milioni e mezzo di persone, con esclusione di molti lavoratori dello spettacolo. Per il resto in quasi due mesi di reclusione, il governo non è stato capace nemmeno di mettere a disposizione della popolazione sufficienti mascherine, non si pretende gratuitamente ma almeno a prezzo calmierato e nei quantitativi necessari. Pare che fra pochi giorni arriveranno ma da Palazzo Chigi è tutto un annuncio e tutto un futuro: faremo, daremo, avremo, organizzeremo. Il futuro dell’Italia. Nel frattempo, la mafia distribuisce gratuitamente cibo nei suoi territori (i suoi, nei quali lo Stato non entra) e manda avanti una vasta e organizzata politica di credito alle imprese. Un inferno criminale dentro la catastrofe. Ma nulla impedisce al presidente del Consiglio di emanare decreti che sommi giuristi bollano come incostituzionali e al governo di gingillarsi con i tentativi di definizione giuridica delle parole “congiunti” e “assembramento”.
Comunque pare che Franceschini qualcosa abbia fatto: il 22 aprile scorso ha detto alla Camera di avere firmato proprio quel giorno il decreto che avvia le procedure per il riparto di 20 milioni di euro a sostegno delle realtà delle arti performative che non hanno ricevuto contributi provenienti dal Fus nel 2019. Venti milioni. Per giunta, come si legge sul sito del Mibact, “tali risorse provengono dai fondi istituiti con il decreto “Cura Italia”, ossia i 130 milioni di cui sopra. Tutti trucchetti – annuncio questo bel provvedimento, dico che metto soldi, li prendo qui, li tolgo là – tutti giochini. Così si ingarbugliano le cose, si fa confusione, nulla è chiaro e preciso e il governo può rispondere a ogni critica, a tutto e al contrario di tutto.
Il ministro ha annunciato un suo decreto che, ha detto, “utilizza i 13 milioni di euro che il Parlamento ha voluto destinare per gli autori, i musicisti, gli artisti che si trovano sotto una certa soglia di reddito”. Quale soglia? A quanti andranno i soldi? Nel question time alla Camera del 22 aprile scorso Franceschini ha anche affermato che l’intero ammontare del Fus, normalmente distribuito in base a parametri da rispettare, ”verrà erogato integralmente nel 2020 indipendentemente dal rispetto di quei parametri”. Buona cosa, ma dal ministero fanno sapere che le commissioni competenti non si sono ancora riunite e che sono ancora tutte da decidere le modalità di erogazione dei soldi del Fus per l’anno corrente. Nel frattempo le biglietterie sono chiuse, quindi la cassa delle imprese è vuota.
Di fronte a questa situazione, alla gente di teatro e dello spettacolo non resta che una soluzione: accantonare ogni discordia, dimenticare diatribe, polemiche, revanscismi, competizione, interessi personali (sui quali il potere agisce per dividere e imperare) e unirsi in una forza di lotta. Una forza sindacale, associativa, rappresentativa degli artisti e dei tecnici e comprensiva di teatri di prosa pubblici e privati, compagnie, istituzioni liriche, musicali, tersicoree e insomma tutti i comparti dello spettacolo dal vivo. Un’organizzazione di difesa della categoria, con una struttura capace di armonizzare e interpretare le differenze all’interno del settore e in grado di contrastare le politiche contro lo spettacolo dal vivo e il mondo della cultura e dell’arte, perseguite, con volontà o con demenza, da questo, dai passati e presumibilmente dai prossimi governi. Si assiste in questi giorni alle enormi pressioni dei vari gruppi d’interesse e lobbies come la Confindustria, la Conferenza episcopale italiana e persino quelli del calcio che impongono platealmente alla pubblica attenzione e al governo le loro rivendicazioni. Bisogna rendere impossibile alla politica di ignorare le istanze del mondo del teatro e dello spettacolo. Bisogna fare in modo che il potere capisca che il suo menefreghismo gli può costare caro, che il mondo del teatro e dello spettacolo può fargli male, arrecargli danni gravi in termini elettorali e sottoporlo alla pressione di manifestazioni, proteste di piazza e altre forme di contrasto politico e sociale. Vanno trattati come dei nemici fin quando non diventeranno amici. Gli artisti hanno anche modo di usare la loro arte per deriderli in scena, screditarli, parodiarli, ridicolizzarli, smascherarne di fronte al pubblico i vizi, l’inettitudine, la corruzione economica e morale. I politici devono sentirsi minacciati nei loro interessi e nella loro dignità.
Per questo bisogna organizzarsi passo dopo passo, studiare i comportamenti degli amministratori locali e nazionali, dei deputati e senatori, controllare e denunciare le leggi e i provvedimenti contrari agli interessi dello spettacolo dal vivo e della cultura.
I politici, soprattutto quelli di oggi, capiscono unicamente il linguaggio della forza. Quasi nessuno di loro è al servizio dei cittadini. Il solo pensiero che abita la stragrande maggioranza dei rappresentanti nazionali e locali è la sopravvivenza politica. Sottoposti a pressioni di ogni tipo e da ogni dove, scelgono sempre di appoggiare coloro in grado di danneggiarli e favorirli maggiormente.
Non si deve però dimenticare il potere ricattatorio della pubblica amministrazione, delle dirigenze ministeriali che fanno e disfano carriere nelle istituzioni teatrali, musicali e culturali. Il loro potere interdittivo e di manovra risale al vuoto politico successivo a Mani Pulite e al patto con i governi succedutisi da allora, in particolare berlusconiani, in cui la pubblica amministrazione avrebbe evitato di contrastare certi interessi della politica in cambio di un’incontrollata libertà d’azione amministrativa. Con il risultato che la corruzione di alte dirigenze di Stato e di pezzi interi della classe dei funzionari pubblici è stata nell’ultimo quarto di secolo addirittura superiore all’istinto tangentaro della politica. Anche perché nei ministeri e nelle amministrazioni locali, i politici passano, gli statali restano. Non bisogna dimenticare il colossale furto perpetrato nel 2012 ai danni dei lavoratori dello spettacolo dall’assorbimento nell’Inps dell’Enpals, in attivo di 3,4 miliardi e mezzo, per compensare parzialmente il deficit di 10,2 miliardi dell’Inpdap, la previdenza della pubblica amministrazione, confluita anch’essa nell’Istituto di via Ciro il Grande. I soldi dei lavoratori dello spettacolo hanno parzialmente pagato gli statali. Responsabile l’allora governo Monti.
Questi mesi di forzata inattività devono essere utilizzati anche per progettare il futuro dello spettacolo dal vivo e dei lavoratori: formulazione di un nuovo welfare e di un nuovo sistema pensionistico, stesura di una legge-quadro del settore, proposte in tema di fiscalità, riforma del Fus e dell’accesso al finanziamento pubblico, eccetera.
È necessario concepire una nuova filosofia del finanziamento pubblico: uno Stato che, secondo l’Istat, ha esercitato nel quarto trimestre 2019 una pressione fiscale del 51,2 per cento, deve (deve: è un obbligo) sostenere economicamente la produzione di spettacoli e la disoccupazione degli artisti e dei tecnici. La disoccupazione va indennizzata secondo criteri stabili ma non oggettivi, la produzione finanziata secondo criteri mobili ma oggettivi. Disoccupazione indennizata secondo criteri stabili ma non oggettivi perché non è possibile dare una definizione categorica dell’artista né del suo impegno in termini di tempo, di ore, di giornate lavorative. Discorso sul tempo che vale anche per i tecnici. Quindi importante è la stabilità del criterio individuato, criterio che può essere censurabile dal punto di vista teorico come censurabile è qualunque tentativo di oggettività nella definizione di artista.
Produzione finanziata secondo criteri mobili e oggettivi perché l’attività di prosa risponde a esigenze economiche diverse da quelle dell’attività lirica o musicale ma si basa comunque sull’oggettività dei numeri di bilancio e dei costi.
Però in primo luogo, bisogna mangiare, cosa non scontata in un paese come l’Italia. L’indeterminatezza temporale sui tempi di riapertura dell’attività blocca la programmazione degli spettacoli e getta sul lastrico una categoria di lavoratori già impoverita da anni di politiche e di burocrazia sistematicamente avverse. È quindi urgente che lo Stato si faccia carico in maniera non furbetta, non furfantesca, delle esigenze di sopravvivenza dei lavoratori dello spettacolo. Un reddito di cittadinanza creativa, costruito con intelligenza, lungimiranza, senso di solidarietà e rigore, può essere uno strumento atto alla bisogna. Strumento da imporre a coloro che Jean-Paul Sartre chiamava “les salauds”, i mascalzoni, i maiali, che in malafede fanno del male agli altri per il proprio tornaconto, gli egoisti senza freni, senza scrupoli, senza compassione.

Marcantonio Lucidi,
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