“La strada” di Cormac McCarthy, regia di Stefano Cioffi. Con Guglielmo Poggi. Al Piccolo Eliseo di Roma

Il viaggio

Alla fine del mondo, rimane l’attore

Mai andare a teatro prevenuti: al Piccolo Eliseo di Roma lo spettacolo si annunciava come un monologo con accompagnamento di chitarra e per giunta sull’adattamento di un romanzo americano distopico (quando per motivi inerenti i misteri della fede, si vuole comunque scrivere ma non si sa di cosa, si butta giù un romanzo americano distopico). La locandina recita: La strada Cormac McCarthy, con Guglielmo Poggi, video e regia (ci stanno pure i soliti video) di Stefano Cioffi, musiche eseguite dal vivo da Francesco Berretti. Detta così, roba da farsi venire il latte alle ginocchia prima ancora d’avere trovato parcheggio. Il guaio più serio era prevedibilmente la chitarra, strumento furbetto che in scena serve a “fare atmosfera” come una canzone dei The Dubliners in un originale pub irlandese a via Merulana. Utilissima la sei corde in alcuni casi, certe scafate e libere mamme anni Settanta esortavano il figliolo adolescente timido a darsi anima e cuore alla chitarra “così forse riesci a rimorchiare qualche ragazza”.
Oltre al distopico, ci sono l’apocalittico, il catastrofico, l’apodittico non palingenetico. Etico, bisbetico, estetico, antitetico perché vuole avvertire l’umanità del guaio nel quale si sta cacciando, si sta cacciando in un gran bel guaio all’americana, maledizione, hey tu, te l’ho già detto, come ti chiami?, Sam, te l’ho già detto Sam ma tu non mi stai ad ascoltare e allora vai a farti fottere Sam, tu e tutti quei figli di puttana che strisciano su questa dannata terra. Invece McCarthy per fortuna non scrive così, i video sono fotografie di semplici paesaggi invernali e solitari, il chitarrista suona ma non pretende di arredare le orecchie degli spettatori e di corteggiare le spettatrici, solo di sottolineare musicalmente determinati passaggi. Mai andare a teatro prevenuti.
Anche se ha dato già varie prove del suo talento pur avendo meno di trent’anni, Poggi merita un discorso a lui tutto dedicato, come fanno i cronisti di calcio sulle giovani promesse che escono dai vivai delle squadre. L’attore è bravo, solido e tecnicamente preparato. Ha una bella voce, ben impostata senza essere accademica; la pronuncia è ottima, non presenta cedimenti dialettali, non incespica mai sulle parole e le articola correttamente fino all’ultima sillaba evitando ogni affettazione. Interpreta i due protagonisti del romanzo, il padre e il figlio, più una serie di altri personaggi minori e dimostra di avere ricchezza nei registri vocali e velocità nei cambiamenti tonali pur mantenendo un ottimo controllo nell’emissione e nei tempi di battuta. Solo una volta in un’ora è stato impreciso nel cambio da un personaggio all’altro. Per quanto stesse a leggio, dimostra una buona mimica, ha un volto mobile e al contempo drammatico, non esagera nelle maniere naturalistiche e non si perde mai il personaggio. Possiede presenza scenica, è di aspetto gradevole e dà sempre l’impressione di essere sicuro e ben centrato su quanto sta facendo.
L’aspetto artistico è questione diversa e si sintetizza in una domanda: Poggi è soltanto un bravo ripetitore o è un interprete? Fa parte della linea dei tecnici della recitazione, i quali sono al massimo artigiani, o è un artista dell’interpretazione? Uno che può ambire a fare parte della schiatta di Massimo Popolizio, Maria Paiato o Eros Pagni, per citarne solo alcuni e diversi l’uno dall’altro? McCarthy descrive un mondo buio, freddo, quasi senza vita, abitato da qualche superstite, bande di disperati, predoni e persino cannibali. Non c’è più passato, non c’è futuro, non c’è niente da mangiare, l’idiozia umana ha distrutto la civiltà e il pianeta. Un uomo e un bambino, un padre e un figlio (non hanno nome) viaggiano a piedi verso il sud e il mare, dove forse la situazione è migliore. Cercano cibo fra le rovine e le case abbandonate, si nascondono, parlano e camminano nel vento e nella pioggia. L’unica cosa che è rimasta del tempo prima della catastrofe è la strada.
La trasposizione teatrale del romanzo, o meglio ciò che è stato scelto di dire in scena, si accentra sul rapporto fra il padre che ha conosciuto il vecchio mondo e il figlio che ha visto solo il nuovo. Tutto il loro dialogo è centrato su questa distanza. E le loro reazioni sono, diciamo, generazionali: l’adulto si porta dentro rancore, rabbia e disperazione generati dal conflitto fra il mondo come era e il mondo come è; il bambino vive nell’istante presente, ha paura, è disperato pure lui ma ritiene istintivamente, anche ingenuamente, che il senso di umanità deve agire qui e ora. Per Poggi questo è il significato fondamentale della storia e con questo va in scena. L’attore porta al pubblico un’idea del mondo, quindi non ripete ma interpreta. Muove la sua idea, la rende azione e così facendo ricostruisce il mondo e gli imprime degli effetti drammatici. Tutta la sua prova è formalizzata da un’astrazione, da un pensiero e una visione che lui trasforma in materia teatrale. Non è cosa da semplice tecnico della scena, per quanto bravo artigiano possa essere, ma da artista.

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.