“Un cuore di vetro in inverno” di e con Filippo Timi. Al teatro Ambra Jovinelli di Roma

Un cuore di vetro in inverno

Nel senno di un picaro

Perché sulla scena di Un cuore di vetro in inverno campeggia l’insegna al neon di un bar? In fondo se non ci fosse, lo spettacolo non sarebbe diverso. Perché un bar è un punto di passaggio di tante storie. Di storie nello spettacolo di Filippo Timi, da lui stesso interpretato all’Ambra Jovinelli di Roma assieme a quattro suoi attori, se ne trovano varie e sono come stazioni di una via crucis o di una sacra rappresentazione: lo sbarco sulla luna dell’Apollo 11, la nascita di Gesù, le avventure di Don Chisciotte.
Poi ci sono le storie non dette ma intuibili dietro i personaggi di questo stravagante, surreale, poetico, come chiamarlo? Dramma? Commedia? A momenti farsa? Racconto picaresco anche. Una prostituta emiliana, uno scudiero campano, un angelo custode, un menestrello malinconico circondano il Cavaliere, ossia Timi tutto catafratto in un’armatura secentesca, che s’esprime con la calata umbra e deve abbandonare la sua bella per andare a combattere contro il drago. Palloncini, abiti da sposa e lune di cartone, il drago è fatto di lingue di stoffa svolazzanti in alto, il Cavaliere ci arriva con una scala, Durlindana di legno in pugno, svolazza anche lui, il mostro è la paura che c’è in noi e la paura si comporta come il fuoco, sale e brucia i rami dell’anima. “Eccola, la mia anima – dice il Cavaliere – un albero isolato dal mondo, un albero in cima un dirupo”.
Tutti uguali e diversi l’Orlando furioso, il Don Chisciotte, il cavaliere inesistente di Italo Calvino e Tristano, Lancillotto, tutti viaggiatori alla conquista dello spirito, del loro senno, dell’amor che porta al cielo e tu spettatore o lettore, tu che ascolti in ottave come in prosa moderna, vedi ciò che credi e soprattutto credi a ciò che vedi, come chiede anche oggidì Filippo Timi, giullare surreale, malinconico fabbro di risate lunari stralunate. Una mente di mezze lune, di pleniluni e noviluni, luna nuova proprio quando non c’è, spenta nel buio cosmico, l’attore mostra col suo modo di fare teatro un suo Seicento, che poi dei secoli passati è forse il più novecentesco, ci crediamo tutti eredi del Settecento razionalista o del Cinquecento umanista, invece siamo figli di sperimentazioni irragionevoli, di stregonerie radioattive e fatture new age, dell’inverno d’un Medioevo elettronico e persecutorio che avanza fin dentro i due primi decenni del terzo millennio. Su un trabiccolo sta l’angelo appollaiato a recitare il Salve Regina in latino – Mater misericórdiae, vita, dulcédo et spes nostra, salve – e lo scudiero canta il Gigi D’Alessio di Non dirgli mai – Il tuo maglione lungo sulle mani / quel seno che non è cresciuto più / le corse in bicicletta a primavera / il vento profumava anche di te.
È un teatro che non vuol cominciare: “Ho appena trovato l’amore, perché devo partire? Non ho voglia”, dice il Cavalier Timi e pare quasi che ora uscirà di scena e non farà lo spettacolo perché fa paura partire alla ricerca del proprio senno, del furore, dell’amore, della morte, della decrepitezza, della tristezza, della sorte. Nessuna avventura è più rischiosa dell’erranza di sé nelle vaste pianure interiori, nelle nostre aggrovigliate foreste, nei laghi metallici dei nostri pensieri intorbidati dalle apparizioni irraggiungibili di Dulcinea, di Angelica, Isotta, Ginevra e di una puttana che in scena si dimena abbigliata d’un bustino animalier. Però è un teatro che arriva, e pazienza per il doppio finale causato da un bislacco senso del dovere narrativo non imposto da chicchessia di finire laddove s’è incominciato – l’ansia di chiudere il cerchio – quando il viaggio di questo spettacolo corre, al pari d’ogni ogni avventura, su una linea e il ritorno a casa rappresenta solo una stazione, seppure l’ultima, della via crucis o della sacra rappresentazione che è la scena di Filippo Timi.
Con lui Marina Rocco, Elena Lietti, Andrea Soffiantini, Michele Capuano. Molto bravi, all’altezza di quanto si chiede loro.

Marcantonio Lucidi,
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