“Otello” di William Shakespeare, regia di Marco Carniti, con Maurizio Donadoni, Gianluigi Fogacci e Maria Chiara Centorami. Al Globe theatre di Roma

©MarcoBorrelli_03092015_2433 OTELLO

Duello al sole e all’ombra

Perché il cattivo, il machiavellico, il perfido cristiano che provoca la morte del geloso Moro di Venezia si chiama Iago? Iago in spagnolo sta per Giacomo. Giacomo, apostolo e patrono di Spagna, riapparve – secondo la leggenda – nell’843 su un cavallo bianco e mise in fuga settantamila Mori che avevano invaso il paese. Perciò era chiamato Iago Matamoros, ossia Giacomo sterminatore dei Mori. Questo è un esempio classico dell’ironia drammatica di Shakespeare. Se si segue questo filo, semplice ed efficace, d’uno Iago che sta in scena al solo scopo di distruggere Otello, e non per chissà quali altri motivi pescati non si sa dove nella complessità di Shakespeare (che è una complessità semplice), si rischia di fare uno spettacolo solido e compatto, senza peraltro pignolerie filologiche, come l’allestimento diretto da Marco Carniti al Globe theatre di Roma.
Una volta gli spettacoli estivi all’aperto erano occasione d’ogni sorta di infamia protetta dalla giustificazione della stagione leggera, ludica, spensierata fino alla scurrilità. Soprattutto con certi Plauto da taverna, i registi e gli attori passavano sovente dall’invernale libertà di opinione sui testi alla balneare licenza di rutto, a meno che non allestissero delle poderose pensose tragedie greche. Adesso che gli Shakespeare vengono attentamente rovinati nei teatri al chiuso, tocca aspettare l’estate per vederne uno fatto come suggerisce l’autore. È il mondo alla rovescia e altrimenti non potrebbe essere in tempi in cui la politica da bar è fatta dagli eletti e non dagli elettori.
Se si volesse proprio trovare dei difetti in questo Otello, si potrebbe sostenere che l’ottimo Maurizio Donadoni nel ruolo del titolo parte appena un po’ troppo carico, ma è nota da azzeccagarbugli di platea. Si potrebbe anche imputare a Gianluigi Fogacci di avere fin troppo chiaro il fatto che il vero protagonista del dramma, la figura centrale dell’azione, è il personaggio di Iago a lui affidato. Osservazione da perdigiorno, anzi da perdinotte. L’importante è che tutt’e due sappiano che la tragedia di Otello è una corrida – c’è pure un pezzo di stoffa, un fazzoletto al posto della muleta – con la differenza che a perdere sono al contempo il toro e il torero. Altrettanto utile alla regia di ricordarsi che l’arena della plaza de toros è divisa in settori sol y sombra, sole e ombra.
A criticare si fa tardi e poco o nulla si trova anche nel caso della Desdemona di Maria Chiara Centorami: l’attrice è di bella presenza, come si diceva nei tempi antichi quando vigeva un po’ di buona educazione e si aggiungeva “il che non guasta”. Ma l’aspetto più interessante di questa interprete è la sua calma di fronte al personaggio: per nulla esaltata, quindi neppure intimorita, dall’occasione di fare addirittura Desdemona, mai Centorami opera come certune che sotto sotto si vantano del ruolo. Un atteggiamento che le permette di stare bene in equilibrio nella parte, né troppo avanti né indietro, non si fa schiacciare e non intende sovrastare. L’attrice e il personaggio vanno in scena insieme senza che, come capita, giunga prima l’una e poi semmai arriva l’altra.
Vi sono due aspetti del lavoro di Carniti che in questo spettacolo si vedono chiaramente: la sua visionarietà teatrale, che offre alcune immagini sceniche di gran fascino, e la sua capacità registica di dare coesione interpretativa alla compagnia. Insomma dirige bene gli attori come singoli e come collettivo. Salvo l’interprete del Doge, Tommaso Ramenghi, il quale letteralmente non sa dove mettere le mani, nel senso che anche i gesti possono suonare falsi, tutto il gruppo si muove con agio, si dispone bene in scena, lavora su tempi e ritmi coerenti con l’intero impianto della messinscena. Allora tutto funziona, i costumi di Maria Filippi, le scene di Fabiana Di Marco, le musiche di Davide Barittoni e Giacomo De Caterini. Tutto funziona perché pensato da un regista che sviluppa un’idea portante: l’idea che Shakespeare è complesso da analizzare ma semplice (non facile) da mettere in scena perché il suo è soprattutto teatro popolare.
Lavorano anche Antonella Civale (Bianca), Nicola D’Eramo (Brabanzio), Diego Facciotti (Montano), Sebastian Gimelli Morosini (Ludovico), Massimo Nicolini (Cassio), Gigi Palla (Roderigo) e Carlotta Proietti (Emilia).

Marcantonio Lucidi,
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