“Copenaghen” di Michael Frayn, regia di Mauro Avogadro, con Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice. All’Argentina di Roma

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C’è dell’intelligenza in Danimarca

“Le particelle sono oggetti, completi nella loro essenza. Le onde sono perturbazioni di qualcos’altro”, osserva in Copenhagen di Michael Frayn il grande fisico danese Niels Bohr, premio Nobel 1922, mentre dibatte con il suo ex allievo, il tedesco Werner Karl Heisenberg, anche lui un Nobel (1932). Poi Bohr dice: “O sono una cosa, o sono l’altra. Non possono essere l’una o l’altra. E noi dobbiamo scegliere un modo di vederle o l’altro. Ma, facendolo, ci precludiamo la possibilità di sapere tutto sul loro comportamento”. Ecco, la proposizione di Bohr in teatro non si dà: uno spettacolo può, anzi dovrebbe essere varie cose contemporaneamente e allo spettatore è permesso non precludersi nulla e osservarlo da una molteplicità di punti vista o, se preferisce, da uno solo. Il dramma che Frayn scrisse nel ‘98, in scena attualmente all’Argentina di Roma, offre una varietà di argomenti piuttosto affascinanti: il duello verbale di due esseri supremamente intelligenti (cos’è il genio? Come funziona la testa di un genio?), la responsabilità etica e morale di uno scienziato (dare ai politici e ai militari la bomba nucleare per uccidere milioni di persone è una scelta giustificata dalle necessità della guerra?), l’amicizia (è ancora possibile quando due uomini appartengono a schieramenti opposti, in lotta per la vita e la morte?), la relazione particolare fra maestro e allievo (è tradimento se il più giovane avanza su strade diverse da quelle del più anziano?).
Mauro Avogadro – che dirige Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice – è un regista solido e raffinato. La riproposta di questa sua messinscena nata nel 1999 e sempre acclamata nel corso degli anni, è un’occasione per osservare un modo di pensare il fatto teatrale come una relazione esclusiva fra testo e interpreti. In scena ci sono tre sedie e tre gigantesche lavagne coperte di formule che rispecchiano i cervelli dei due premi Nobel. Quindi si sta dentro le loro menti, a guardare cosa succede.
Nel 1941 Heisenberg, divenuto capo del programma  nucleare militare tedesco, si recò improvvisamente a Copenaghen, occupata dai tedeschi, a trovare Bohr. Per parlargli di cosa, non è mai stato chiaramente appurato ma molto probabilmente il tema era la Bomba, visto che i due scienziati erano coinvolti nelle ricerche sul nucleare ma su fronti opposti. A questo proposito, Frayn fu aspramente criticato riguardo la verità storica di Copenaghen da studiosi ingenuamente innamorati dell’oggettività storiografica. Ma questo non è un testo che pretende di fare luce su ciò che non si può più illuminare; è invece un discorso filosofico, peraltro molto attuale, sulla responsabilità della scienza e un’indagine sulla relazione fra due menti arrivate a un punto critico della ricerca umana, alla frontiera fra un prima e un dopo, al centro di una crisi (in senso etimologico dal greco krisis, che tiene a krìnò, “separo” e, figurato, “decido”). Nulla è più teatrale di una crisi.
Per evitare però una specie di duetto solipsistico (nell’accezione di considerare l’universo come semplice rappresentazione della propria, particolare coscienza), Frayn pone fra i due protagonisti la figura di Margrethe, la moglie di Bohr. Lei ha il compito tecnico-drammaturgico fondamentale di variare i ritmi del dialogo, di modificarlo, di riformularne gli argomenti. Controlla i piani del discorso, lavora come gli scambi dei binari, rilancia l’azione-conversazione su strade nuove. Si forma così un triangolo di personaggi che rappresenta una certezza di movimento teatrale, sia scenico che psicologico, contrapposto ai pericoli di immobilità di un sistema chiuso duale. Questa triangolarità è costantemente ricercata, e percepibile, nella regia di Avogadro, in come di volta in volta muove gli attori nello spazio. La dinamica di una conversazione e di una regia che non sono mai circolari, ma sempre aperte a un “tertium datur”, a un’ipotesi ulteriore, un imprevisto, a un imponderabile umano, produce un senso di indeterminazione sostanziale del discorso, secondo la regola, insegnata da ogni buon professore di filosofia, che non bisogna mai rispondere alla domanda ma sempre discuterla, analizzarla, approfondirla. E il principio di indeterminazione è un concetto cardine della meccanica quantistica formulato proprio da Heisenberg e qui naturalmente manifestato in termini drammaturgici e teatrali. Il fascino dell’allestimento probabilmente sta qua, nella perfetta coincidenza fra le ragioni del testo e le soluzioni registiche. Soluzioni che necessitano di tre interpreti impeccabili, capaci di lavorare con meccanica precisione senza mai perdere il personaggio nella sua umanità.
Su Massimo Popolizio (Heisenberg) andrebbe fatta una riflessione a parte: si tratta di un artista della scena spesse volte tacciato di “ronconismo”, d’essere il risultato della famosa recitazione ronconiana, che pretenderebbe una sorta di attore automatico, dello stesso valore scenico di una sedia seppur parlante e agente, maniacalmente ancorato al testo, completamente asservito a una dittatura registica che aborre il naturalismo e ovviamente la psicologia dei personaggi, sprezzantemente definita da Luca Ronconi “secrezioni di sentimenti”. Un giudizio simile significherebbe togliere dignità artistica a Popolizio, il quale invece è un attore originale, di forte personalità, tecnicamente preparatissimo, uno dei migliori oggi in Italia, e plastico, provvisto di una duttilità epperò temperamentosa che gli ha permesso di lavorare per vent’anni con uno dei grandi maestri della scena italiana e con altri registi. Di Umberto Orsini (Bohr) e Giuliana Lojodice (la moglie Margrethe), dire che abbiano migliorato la loro prova sarebbe quasi offenderli. Governavano perfettamente i loro personaggi già nelle edizioni precedenti di Copenhagen. Vero però che traspare in loro un piacere, una gioia liquida di rifare il dramma che sembra renderli meravigliosamente semplici, solari, apollinei.

Marcantonio Lucidi,
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