“Ophelìa” di Giacomo Sette, regia di Gianluca Merolli, con Giulia Fiume, Federico Le Pera e Gaia Benassi. All’India di Roma

Ophelìa

A che pensi stasera, donna amletica?

Forse non esiste un testo teatrale più saccheggiato dell’Amleto, più rimaneggiato, rigirato, risistemato, tagliato, sfoderato, rifoderato, a tre bottoni, a due bottoni, risvolto largo oppure stretto, monopetto o doppio petto. Il testo di Shakespeare è come una giacca al mercatino dell’usato, penzola tutta sformata in bella vista offerta a chi la piglia. Strano come gli uomini sentano il bisogno di perfezionare soprattutto ciò che già è perfetto, come se non sopportassero la vista dell’impareggiabile. Sicché, quando ci si appresta ad assistere all’ennesimo spettacolo sopra, sotto, davanti, indietro, attorno all’Amleto, s’ha l’impressione di entrare in un teatro anatomico universitario dove sta per incominciare la lezione su un cadavere. In effetti Ophelìa di Giacomo Sette, regia di Gianluca Merolli, si rivela una dissezione del testo shakespeariano ma in modo inaspettato: lo spettacolo è come una salma aperta a mostrare alcuni organi interni ben scelti e studiati che sono la follia, la passione, la ragione, il potere.
Generosamente ospitato al teatro India di Roma, l’allestimento era inizialmente previsto al teatro all’Orologio chiuso pochi giorni fa dalla pubblica autorità che ha mandato i suoi sbirri. Siamo in una di quelle fasi ricorrenti in cui il potere politico, attualmente esercitato perlopiù da canaglie assai occupate a sfuggire alla magistratura, si accanisce in vari modi contro il teatro. È il momento giusto: le sale di prosa sono spesso piene di spettatori, quelle di cinema, che evidentemente offrono molta robaccia omogeneizzata, sono invece sovente vuote. E siccome il teatro è assai meno controllabile produttivamente e culturalmente del cinema perché non necessita di grandi mezzi economici, perché è uno straordinario, veloce, diretto mezzo di comunicazione che può operare quasi in qualunque luogo e perché è una forma di spettacolo di grande passato dal lungo futuro, ecco che la canaglia lo ritiene sommamente pericoloso.Questo spettacolo, che è l’Amleto visto con gli occhi di Ofelia, si pone, citando dal comunicato stampa, la seguente opportuna domanda: “Quanto la cecità di singoli individui che esercitano il potere mischiandolo con i propri personali interessi incide sulla realtà socio-politica di una nazione?”. Sono considerazioni da non divulgare pubblicamente altrimenti poi i teatri vengono chiusi. Meglio rassicurare informando che lo spettacolo si occupa di sesso, droga, rock ‘n‘ roll o delle conseguenze del pranzo natalizio sulla psiche del cappone.
Lo spettacolo si svolge su vari piani: dentro un plastico che rappresenta il castello di Elsinore e un campo di battaglia, gli attori muovono dei pupazzetti Playmobil che vengono filmati e proiettati mentre gli interpreti agiscono. La sovrapposizione di immagini video e sceniche, di attori e di omini in plastica genera un racconto multimediale frammentato e produce una serie di visioni spesso inaspettate e sorprendenti, dei giochi illusionistici che spezzettano l’azione come una salma sul tavolo da dissezione. Ora, sarebbe troppo sbrigativo sostenere che l’allestimento, in certi momenti visualmente molto interessante, mostri alcune ingenuità perché opera di giovani artisti. È quasi offensivo ritenere che la gioventù sia una valigia di errori che si svuoterà con l’età (altrimenti i vecchi sarebbero tutti grandi artisti) e abbassare così l’arte del regista e degli attori in scena. Il principale problema della messinscena sta nel ritmo complessivo che risulta sempre lo stesso in quanto soggiace a un inganno della visualità. Vi è un effetto da album fotografico perché la successione di immagini sceniche, per quanto originali, ha comunque bisogno di tempi e controtempi, accelerazioni e decelerazioni, nell’andamento generale dello spettacolo. Altrimenti si rischia di mettere in scena un’idea, che di per sé a teatro è sempre statica, un progetto di spettacolo in luogo dello spettacolo.
Tuttavia quella della regia è effettivamente una strada, in parte incompiuta e in parte invece ben realizzata dagli attori. Giulia Fiume è una Ofelia che indaga dall’interno la propria anima femminile d’amore e di passione mentre Gaia Benassi in vestiti piuttosto succinti è la femminilità corporea che si fa tentativo di intervento disonesto sul mondo. Amleto nello spettacolo non appare, è un fantasma che, al contrario di suo padre, non ha neanche la possibilità di mostrarsi in scena. È Fortebraccio in questo caso il protagonista maschile – colui che pone la domanda sulla natura del potere – ruolo affidato a Federico Le Pera, interprete di presenza scenica e di risorse che la regia non utilizza pienamente. Assieme agli attori anche il ballerino e coreografo Giuliano Peparini.

Marcantonio Lucidi,
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